L’industrializzazione fuori dalla Gran Bretagna prosegue a ritmi diversi, condizionati dalla disponibilità di risorse, capitali e forza-lavoro. Negli Stati Uniti la crescita è vertiginosa, sostenuta da una massicca immigrazione dall’Europa (attratta dai salari più elevati e dalla dipsonibilità di posti di lavoro), dal rapido sviluppo dei trasporti per risolvere il problema della vastità del territorio statunitense, dalla spinta data dal governo all’industrializzazione, che, all’alba del nuovo secolo, fa degli USA la principale potenza industriale del mondo.
Dopo il 1850, anche le nazioni europee non coinvolte nella prima rivoluzione industriale si affacciano sulla scena del progresso: il loro ritardo è essenzialmente dovuto alla mancanza di carbone, che li fa dipendere quasi totalmente dalle importazioni. Le strade però sono diverse: la Svizzera punta soprattutto sull’elevata specializzazione delle proprie industrie, in grado di fornire merci di alta qualità e con alto valore aggiunto, mentre l’Italia - come in generale gli stati dell’Europa del sud - sconta, dopo l’unificazione del 1861, il ritardo della rete dei trasporti, l’arretratezza del sistema produttivo (in cui è ancora prevalente l’agricoltura), la limitatezza di capitali e di risorse naturali. Anche la Russia, paese ancora saldamente ancorato al sistema feudale, conosce una svolta significativa a metà dell’Ottocento: la sconfitta nella guerra di Crimea (1856) e l’abolizione della servitù della gleba (1861) sono i punti di partenza per lo sviluppo industriale, sostenuto con forza dal governo (ad esempio, con la costruzione della grande ferrovia Transiberiana presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900).
Il Giappone infine, è l’unica nazione non europea ad affacciarsi sull’industrializzazione: la “restaurazione Meiji” (1868) promuove una riforma burocratica che abolisce il feudalesimo, favorisce l’importazione di tecnologie e la formazione all’estero della nuova classe dirigente. Al tempo stesso, l’iniziativa governativa sostiene l’impresa privata, che penetrerà nei mercati europei con la Prima guerra mondiale.
La lezione è a cura del Laboratorio LAPSUS (Università degli Studi di Milano).
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Tra i primi paesi a industrializzarsi va ricordato lo spettacolare caso degli Stati Uniti, dove nel corso dell’Ottocento si registra una rapidissima crescita economica. Il primo dato importante da rilevare è il forte aumento demografico: da 4 milioni di abitanti alla fine del Settecento si passa a quasi quaranta milioni nel 1870, per arrivare a quota cento milioni alla vigilia della Prima guerra mondiale. Va ricordato però come gli Stati Uniti siano la meta privilegiata di gran parte dell’emigrazione europea grazie alle politiche sulla libertà di immigrazione, almeno fino alla Prima guerra mondiale.
A crescere ancor più velocemente sono la ricchezza e il reddito. Negli Stati Uniti, infatti, i salari sono più elevati rispetto a quelli europei data la scarsità di manodopera in rapporto alla terra. Inoltre il suolo e il sottosuolo statunitense sono ricchi di risorse naturali. Tutti questi fattori hanno reso necessario l’introduzione dell’uso delle macchine per abbattere il costo della manodopera. (che come abbiamo visto essendo scarsa richiedeva salari elevati).
Un'altra caratteristica fondamentale da ricordare nel modello di sviluppo dell’industrializzazione negli Stati Uniti è l’immensa vastità del suo territorio che ha reso possibile, ma anche necessario, un elevato grado di specializzazione delle industrie a livello regionale. Strettamente legato a ciò vi è la vastità del mercato interno privo di barriere commerciali, le cui potenzialità però trovano un limite agli inizi dell’Ottocento nelle scarse vie di comunicazione. È per questo motivo che il governo federale vara un piano di miglioramento che prevede la costruzione di strade a pedaggio e canali. Nel giro di pochi anni compaiono però le ferrovie che diventano ben presto le protagoniste dello sviluppo americano. Nel 1840, infatti, la rete ferroviaria statunitense supera quella di tutta Europa. Settore trainante dell’industria diviene la siderurgia che, insieme allo sviluppo di altre manifatture, porta gli Stati Uniti a diventare la maggiore nazione industriale del mondo nel 1890.
Passiamo ora a considerare i paesi della cosiddetta seconda ondata di industrializzazione che presentano modelli di sviluppo ritardatari o assenti rispetto ai primi paesi industriali. Ad esclusione delle aree europee prese in considerazione in precedenza (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Germania), nelle altre non possiamo parlare di processi di industrializzazione prima del 1850. In queste regioni, infatti, lo sviluppo industriale segue strade e tempi diversi rispetto ai paesi di prima ondata. Prima differenza importante da considerare è il legame con il carbone. Se infatti i primi paesi industriali vedono la propria industrializzazione strettamente legata al carbone, nei paesi di più tarda industrializzazione la sua produzione è scarsa se non addirittura assente, costringendo questi paesi a dipendere quasi totalmente dalle importazioni.
La Svizzera è il primo paese europeo della seconda ondata. Il suo sviluppo comincia dopo il 1850 quando si arriva a completare l’unione doganale, l’unione monetaria e viene uniformato lo standard di pesi e misure. A caratterizzare l’industrializzazione svizzera è la scarsità di terra arabile che già da tempo aveva provocato una commistione di agricoltura e industria domestica con il ricorso ai mercati internazionali per l’importazione di materie prime e generi alimentari. La Svizzera si impone sul mercato con una caratterizzazione molto forte e praticamente unica: una tecnologia molto avanzata e una intensità elevata di forza lavoro specializzata. I suoi prodotti quindi sono di alta qualità e con un alto valore aggiunto, come per esempio gli orologi, i tessuti, i formaggi pregiati e il cioccolato. Essendo priva di carbone e di minerai ferrosi la Svizzera sceglie di non investire nell’industria pesante, concentrando le proprie energie e risorse altrove e affidandosi alle importazioni. Questa esperienza mostra come non esiste un unico modello valido di industrializzazione e come è stato possibile raggiungere un alto tenore di vita sviluppando industrie sofisticate senza disporre di risorse carboniferi sul proprio territorio nazionale.
Per i paesi dell’Europa meridionale e orientale è possibile riscontrare delle caratteristiche comuni:
Un
grado di industrializzazione molto basso e insufficiente fino alla prima guerra mondiale. Questo ha comportato bassi redditi pro capite e un alto tasso di povertà;Occupano gli ultimi posti in Europa sia per grado di
alfabetizzazione della popolazione adulta sia per
frequenza delle scuole primarie;L’assenza di una
riforma agraria che aumenti i livelli di produzione agricola liberando manodopera;La presenza secondo diverse modalità di
regimi autocratici, autoritari o corrotti.
Bisogna ora considerare i tratti distintivi dei singoli paesi nella risposta allo sviluppo economico. La Spagna e il Portogallo hanno un andamento simile tanto da poter essere considerate come una sola entità: la penisola iberica. A caratterizzarli è il dissesto delle finanze pubbliche dovuto a un eccessivo indebitamento con l’estero che ha prodotto una forte inflazione monetaria e a un aumento delle concessioni per i prestiti. Tutto questo ha reso praticamente impossibile gli investimenti.
Per l’Italia non si può parlare di un’economia nazionale vera e propria dato che si trovava divisa in un mosaico di stati indipendenti e soggetti per lo più a potenze straniere. Inoltre le differenze tra regione e regione sono tra le più marcate d’Europa. Con l’unità nel 1861 le cose iniziano a cambiare soprattutto per il fatto che viene abolita la frammentazione del mercato interno e viene estesa a tutta la penisola la legislazione e il sistema amministrativo piemontese uniformando il territorio. Rimangono però importanti ostacoli come la fatica a sviluppare i trasporti, la scarsità di capitali e di risorse naturali e il gran numero di addetti all’agricoltura che costituiva ancora la maggior parte della popolazione attiva. L’Italia si trova così costretta a dover dipendere dagli investimenti stranieri e dalle relazioni economiche con l’estero.
Spostandoci ora nel sudest europeo, vale a dire Albania, Romania, Bulgaria, Serbia e Grecia, si può affermare che alla vigilia della prima guerra mondiale l’industria moderna, così come abbiamo visto è andata caratterizzandosi, non si è ancora affermata in queste regioni.
Per quanto riguarda l’Europa manca da prendere in considerazione la Russia imperiale. All’inizio del XIX secolo la Russia è ancora un paese prevalentemente agricolo in quanto l’agricoltura produce più della metà del reddito nazionale. Nonostante questo la sua produttività è molto bassa e ancorata a una tecnologia arretrata. Nel corso dell’ottocento comunque l’industrializzazione diventa un fenomeno percepibile e gli operai passano da meno di centomila a oltre mezzo milione dopo il 1860. Va ricordato però che si tratta di operai di condizione servile che vedevano decurtato il proprio stipendio di somme di denaro che trattenevano i padroni. L’anno di svolta è il 1861: da una parte viene abolita la servitù della gleba, dall’altra iniziano a farsi sentire le conseguenze della guerra di Crimea (conclusasi nel 1856). Quest’ultima aveva rivelato l’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura russe spingendo il governo verso un ampio programma di investimenti per l’ammodernamento. Innanzitutto viene promosso un imponente progetto di rete ferroviaria utilizzando capitali e tecnologie d’importazione, in seguito viene riorganizzato il sistema bancario introducendo tecniche finanziarie occidentali. Tutto questo permette alla Russia di compiere un grande salto in avanti nella produzione industriale nell’ultimo decennio dell’ottocento. All’inizio del XX secolo è considerata una grande potenza industriale.
Prima di concludere questa rassegna sui paesi della seconda ondata di industrializzazione è doveroso esaminare il caso del Giappone, essendo l’unico paese non occidentale a imboccare la via dell’industrializzazione nel XIX secolo. Si è soliti far risalire la nascita del Giappone moderno alla restaurazione Meiji del 1868. Vediamo le conseguenze di ciò sull’economia. Per prima cosa viene abolito il sistema feudale e sostituito da un’amministrazione burocratica centralizzata, in seguito vengono importati soprattutto dagli Stati Uniti nuovi metodi industriali e finanziari, inoltre i giovani più promettenti vengono mandati a studiare all’estero i metodi occidentali di politica, governo, scienza militare, tecnologie industriali e commercio in modo da farne una summa dei migliori per poi adattarli alle condizioni giapponesi, infine viene creato un nuovo sistema bancario unificato. Tutto ciò è necessariamente legato all’iniziativa governativa che però non era intenzionata a proibire l’iniziativa privata. Infatti quando le fabbriche e i nuovi impianti industriali cominciano a funzionare a pieno regime, il governo giapponese li vende a società private. Per concludere va ricordato come la prima guerra mondiale abbia costituito un momento importante per il processo di industrializzazione giapponese, in quanto permette ai produttori giapponesi di penetrare nei mercati europei.