Tra il 136 e il 71 a.C. la Repubblica romana fu impegnata nel tentativo di sopprimere diverse rivolte servili. Tre in particolare richiesero grandi sforzi per essere domate, e lasciarono di conseguenza un vivido ricordo nella storiografia antica:
- La rivolta capeggiata dallo schiavo di origine siriaca Euno (poi proclamatosi re con il nome di Antioco), che tenne impegnati gli eserciti romani in Sicilia tra il 136 e il 132 a.C.;
- Una seconda ribellione, scoppiata sempre in Sicilia, guidata dagli schiavi Salvio e Atenione, che si svolse tra il 104 e il 100 a.C.;
- La terza e più celebre insurrezione, promossa dal gladiatore trace Spartaco, che, cominciata a Capua nel 73 a.C., si estese ben presto a tutta la penisola italica costringendo i romani a due anni di feroci combattimenti.
A causare queste rivolte furono diversi fattori, spesso eterogenei, ma comunque riconducibili alla profonda trasformazione subita dall’economia romana in conseguenza delle grandi guerre di conquista del II secolo a.C. e al vertiginoso aumento della manodopera schiavile impegnata nelle vaste tenute fondiarie in Sicilia e nel sud Italia.
Introduzione
Nel 140 a.C. Roma aveva ormai esteso la sua egemonia su tutto il bacino del Mediterraneo. Le guerre di conquista, condotte soprattutto in Oriente, portarono notevoli cambiamenti nell’assetto politico e sociale della città: il flusso costante di denaro, garantito dall’imposizione di tributi alle popolazioni sottomesse, permise la costruzione di splendidi edifici pubblici; il contatto con la cultura greca modificò in modo sostanziale il tradizionale sistema di valori aristocratici (il mos maiorum), suscitando nei nobili romani un nuovo gusto per il lusso e per l’ostentazione pubblica della ricchezza.
Parallelamente, anche l’economia e la produzione agricola andarono incontro a profonde trasformazioni, che interessarono soprattutto la parte meridionale della penisola italica e la Sicilia. Queste zone, che avevano subito vaste devastazioni durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.), non furono soggette a un’equa ridistribuzione dell’ager publicus o alla fondazione di nuove colonie, come era sempre avvenuto in precedenza e come ancora avveniva nel nord Italia 1, ma, lasciate per lo più incolte, finirono nelle mani di pochi, grandi proprietari terrieri.
Si vennero così a formare vaste tenute agricole dedite per lo più alla coltivazione intensiva di ulivo e vite (i cosiddetti latifundia). Queste nuove colture, se da una parte garantivano enormi profitti, dall’altra richiedevano altresì grandi investimenti a causa dell’elevato costo dei macchinari di produzione. Per questo motivo, nelle villae rustiche si cominciò a far uso in misura sempre maggiore di manodopera schiavile. I vantaggi derivati da questa scelta erano del resto ben evidenti: gli schiavi costavano molto meno dei braccianti liberi e inoltre, non essendo soggetti alla leva militare, potevano garantire prestazioni di lavoro continuate nel tempo.
Nel mondo antico la schiavitù era un fenomeno molto esteso e Roma, in questo caso, non faceva eccezione: la manodopera schiavile era costituita principalmente da popolazioni nemiche prese in ostaggio durante le campagne belliche e infatti le nostre fonti attestano chiaramente la riduzione in schiavitù di migliaia di persone sin dal III secolo a.C., ovvero un periodo di fortunate conquiste 2.
Tuttavia nel II secolo a.C. il fenomeno si ingigantì e assunse proporzioni mai conosciute prima grazie soprattutto alle ripetute vittorie riportate dalle legioni romane nelle zone orientali del Mediterraneo 3. Chiaramente la manodopera schiavile non era impiegata unicamente nel lavoro dei campi. Gli schiavi più fortunati erano assunti come “domestici” nelle sempre più lussuose ville degli aristocratici romani. Qui essi conducevano un tenore di vita sicuramente privilegiato rispetto ai loro compagni braccianti: questi ultimi erano infatti sottoposti a turni di lavoro massacranti, al termine dei quali passavano la notte rinchiusi in piccole celle (gli ergastula) incatenati tra loro. Gli schiavi più giovani e robusti erano invece utilizzati come mandriani. Nel II secolo a.C. la transumanza (ossia lo spostamento stagionale delle mandrie tra le diverse zone di pascolo) conobbe infatti un notevole sviluppo, soprattutto nel sud Italia e in Sicilia, dove vi erano vaste porzioni di terreno incolto e non assegnato. Gli schiavi mandriani (i cosiddetti pastores), lasciati con pochissimi viveri con cui affrontare i lunghi spostamenti, finivano spesso per darsi al brigantaggio, e la loro attività era generalmente tollerata dalle autorità, che, messe sotto pressione dai proprietari (i quali ricevevano dai mandriani una percentuale del frutto delle rapine), finivano per chiudere un occhio sugli illeciti.
Il vertiginoso aumento della manodopera schiavile nel II secolo a.C. e lo sfruttamento sempre più intensivo del lavoro degli schiavi nelle grandi tenute agricole crearono infine le premesse per lo scoppio di alcune grandi sollevazioni.
La prima guerra servile (136-132 a.C.)
La prima rivolta servile ebbe origine in Sicilia, una regione che era stata particolarmente interessata dallo sviluppo dei latifundia e dall’importazione di manodopera schiavile. La scintilla scoppiò a Enna, dove un gruppo di schiavi appartenenti al proprietario terriero Damofilo e a sua moglie Megallis diede vita a un’insurrezione armata liberando tutti gli schiavi (circa quattrocento) rinchiusi negli ergastula del padrone. A capo di questa rivolta si pose uno schiavo domestico di nome Euno. A quanto ci dicono le fonti, Euno era di origini siriache (proveniva dalla città di Apamea sull’Oronte) ed era considerato un “mago”. Profondamente devoto alla dea orientale Astarte 4, egli era convinto di possedere il dono della divinazione e viveva nella certezza che la dea gli avesse profetizzato un futuro “regale”. Grazie al suo carisma e all’aura di mistero che lo circondava, Euno assunse ben presto la leadership dei ribelli e organizzò un attacco notturno a Enna durante il quale diversi padroni, tra cui lo stesso Damofilo, furono uccisi. Forte del successo e con l’obiettivo di consolidare la sua posizione, Euno si fece allora proclamare “re” dai ribelli e assunse il nome di Antioco, in omaggio alle sue origini siriache. Le forze militari sotto il suo comando si estesero ben presto fino a raggiungere le 6.000 unità.
Statua di Euno a Enna.
La notizia della vittoria di Euno incoraggiò altri schiavi, forti del successo della rivolta, a nuove ribellioni. Circa un mese dopo scoppiò infatti, nel sud dell’isola, un’altra rivolta, comandata da uno schiavo di nome Cleone, che era un addestratore di cavalli proveniente dalla Cilicia. Postosi a capo di una forza di circa 5.000 uomini, egli riuscì a impadronirsi di Agrigento e del territorio circostante. Seppur a comando di una forza indipendente di notevoli dimensioni, Cleone decise di riconoscere l’autorità di Euno e i due, congiunte le rispettive forze militari, allargarono il fronte della ribellione a tutta l’area orientale della Sicilia.
In un primo momento i romani presero sottogamba l’insurrezione e affidarono la sua soppressione ai pretori che governavano l’isola. Questi disponevano tuttavia di forze insufficienti con cui contrastare i ribelli e infatti nei primi scontri, avvenuti tra il 136 e il 135 a.C. - la cronologia è comunque incerta - i romani furono ripetutamente sconfitti: gli schiavi riuscirono così a impossessarsi di diverse roccaforti, tra cui Catania e Tauromenium (l’attuale Taormina). Nel 134 a.C. il senato si decise quindi a inviare in Sicilia uno dei due consoli, C. Fulvio Flacco, il quale tuttavia non raccolse successi definitivi. Nel 133 a.C. fu la volta del console Lucio Calpurnio Pisone Frugi, il quale riconquistò Morgantina e mise sotto assedio Enna. Il definitivo successo romano arrivò però soltanto nel 132 a.C., quando il comando delle operazioni fu assunto dal console Publio Rutilio. Egli riconquistò le ultime due roccaforti ancora in mano ai ribelli, vale a dire proprio Enna e Tauromenium. Quest’ultima fu conquistata solo grazie al tradimento di Serapione, uno schiavo di origine siriaca, dopo che le lunghe operazioni di assedio avevano costretto gli schiavi a darsi persino al cannibalismo. Anche Enna capitolò dopo un lungo assedio: circa 20.000 schiavi furono uccisi e lo stesso Euno fu fatto prigioniero. Posta fine alla ribellione, il console emanò un editto (la cosiddetta lex Rutilia) con la quale venivano regolamentati i rapporti giuridici tra le diverse comunità siciliane e Roma.
Ciò nonostante, l’economia siciliana non subì radicali trasformazioni e continuò ad essere imperniata su un largo utilizzo di schiavi: le perdite subite durante la prima rivolta servile furono ben presto rimpiazzate da nuovi “arrivi”, generati, come prima, dalle estese campagne militari condotte da Roma in tutto il bacino del Mediterraneo.
La seconda guerra servile (104-100 a.C.)
L’incapacità di Roma di modificare l’assetto economico e sociale della Sicilia sfociò infine, una generazione più tardi, in una nuova sollevazione. Le prime avvisaglie di una possibile rivolta si ebbero già nel 104 a.C. ad Halyciae (cittadina della Sicilia occidentale, vicino all’odierna Marsala) quando uno schiavo di nome Vario raggruppò intorno a sé un piccolo manipolo di insorti. Questo primo focolaio fu rapidamente stroncato dal governatore romano Publio Licinio Nerva, il quale, messosi in marcia da Siracusa, assediò la roccaforte dei ribelli che fu tuttavia conquistata, anche questa volta, solo grazie a un sotterfugio. Nerva riuscì infatti a infiltrare tra in nemici un proprio schiavo di nome C. Titinio Gadaeus, il quale, fintosi in un primo momento amico dei ribelli, aprì in seguito le porte ai romani. La rivolta di Halyciae fu così un fallimento, ma il clima in Sicilia era ormai maturo per una nuova sollevazione generale. Nello stesso periodo si ebbero del resto sollevazioni di schiavi anche a Nuceria e a Capua, che furono represse duramente da Roma.
A scatenare la rivolta concorse anche la particolare e delicatissima situazione militare che Roma si trovava a dover affrontare in quegli anni. Sin dal 113 a.C. le legioni romane erano infatti costantemente impegnate su due fronti: a nord, dove i confini della penisola italica erano minacciati dalla pressione delle popolazioni germaniche dei Cimbri e dei Teutoni; a sud, dove ormai da dieci anni si combatteva una durissima guerra contro il re di Numidia, Giugurta 5.
Un gran numero di schiavi quindi si organizzò per dare vita a un’aperta ribellione. Riunitisi presso il Monte Capriano, essi ebbero la meglio sulle forze del comandante M. Titinio, un luogotenente inviato da Nerva a sedare la rivolta. Forti di questo successo e raggiunto ormai il numero considerevole di circa 6.000 unità, i ribelli elessero come re un uomo di nome Salvio, il quale, come già Euno, godeva di fama d’indovino. Sotto la guida di Salvio, i ribelli si mossero contro Morgantina e, in uno scontro avvenuto fuori dalla città, essi inflissero una pesante sconfitta a Nerva. Gli schiavi non riuscirono tuttavia a conquistare la città, che rifiutò di consegnarsi nelle loro mani nonostante gli incitamenti di Salvio agli schiavi presenti dentro le mura.
Nel frattempo un altro schiavo, di nome Atenione, si mise a capo di una vasta rivolta nella parte nord-occidentale della Sicilia. Raggruppata una forza di circa 10.000 uomini, Atenione strinse d’assedio Lilibeo, che tuttavia riuscì a resistergli. Atenione unì quindi le sue forze a quelle di Salvio (che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in Trifone, in onore di un usurpatore seleucide), riconoscendone l’autorità. I due decisero quindi di porre la “capitale” dei ribelli a Triocala, le cui difese furono rafforzate in previsione del contrattacco romano.
All’inizio del 103 a.C. il Senato si decise infine a inviare in Sicilia L. Licinio Lucullo (colui che nel 105 a.C. aveva stroncato la rivolta di Capua) insieme con una forza di 16.000 uomini. I due eserciti, quello romano e quello di Salvio e Atenione, si scontrarono nei pressi di Scirthaea e Lucullo riportò una grande vittoria: i ribelli lasciarono sul campo 20.000 uomini, circa la metà delle loro truppe. Ciò nonostante Lucullo non riuscì a conquistare Triocala; inoltre, avuta notizia che su di lui pendeva un’accusa di corruzione e che il Senato aveva già deciso di inviare in Sicilia un nuovo comandante, sciolse il suo esercito e distrusse tutti gli accampamenti romani, così da rendere più difficile l’opera per il suo successore 6. Nel 102 a.C. la bilancia del conflitto tornò quindi a pendere in favore dei ribelli: il nuovo comandante romano, C. Servilio Cepione, non riuscì infatti a conseguire alcun successo, mentre Atenione, divenuto unico leader dei ribelli dopo la morte improvvisa di Salvio, estese le operazioni fino ai confini nord-orientali della Sicilia, conquistando Macella e ponendo sotto assedio Messina.
Nel 101 a.C. il Senato si risolse quindi a inviare sull’isola uno dei due consoli, M. Aquilio, il quale, seppur a fatica, pose fine alle ostilità. In una nuova grande battaglia campale egli inflisse una severa sconfitta ai ribelli e uccise di sua mano Atenione. Ormai ridotti di numero e affamati dai continui rastrellamenti operati dall’esercito romano, gli ultimi ribelli, comandati da un certo Satyro, si consegnarono ad Aquilio, il quale dispose il loro trasferimento a Roma, condannandoli alla morte nell’arena. Qui, secondo Diodoro Siculo, essi preferirono uccidersi l’un l’altro fino all’ultimo uomo.
La rivolta di Spartaco (73-71 a.C.)
Statua di Spartaco (opera di Denis Foyater, 1830, Parigi: Museo del Louvre).
La terza rivolta servile ebbe caratteristiche molto differenti rispetto alle precedenti ribellioni. Essa ebbe origine a Capua, nel 73 a.C., nella caserma gladiatoria di proprietà di Cn. Cornelio Lentulo Vazia. Vazia era un lanista, ossia un impresario che comprava e allenava gladiatori da affittare poi agli organizzatori dei giochi. Uno dei gladiatori ospitati nella caserma era Spartaco, un uomo proveniente dalla Tracia che in gioventù aveva servito in un’unità alleata dell’esercito romano. Durante il periodo di servizio, Spartaco aveva probabilmente militato nella cavalleria ausiliaria, rivestendo forse un ruolo di comando. A un certo punto, tuttavia, egli decise di disertare e divenne un bandito. Catturato dai romani, fu ridotto in schiavitù e condannato a diventare gladiatore. Nella scuola di Vazia si trovavano circa duecento combattenti, di provenienza molto varia: Traci, Celti, Germani, ma anche italici, liberi cittadini che avevano scelto la vita da gladiatore perché spinti dalla povertà, dalla disperazione o semplicemente dalla noia.
Le ragioni della rivolta non sono chiare: i gladiatori non vivevano in condizioni peggiori rispetto agli altri schiavi e di sicuro non miravano a un progetto politico unitario, come era avvenuto invece nel caso della rivolta di Euno, il cui fine ultimo sembra fosse la costituzione di un regno indipendente di stampo ellenistico. Forse fu la congiuntura militare romana a spingerli alla ribellione, o forse fu la forza carismatica di Spartaco ad accendere i loro cuori: le fonti antiche sono infatti concordi nel riconoscere al gladiatore trace un talento naturale per il comando e l’abilità di suscitare coraggio nei suoi uomini.
Ad ogni modo, nella primavera del 73 a.C. i duecento gladiatori della scuola di Vazia si ribellarono. Il piano prevedeva di impossessarsi dell’arsenale della scuola e di darsi alla fuga, ma qualcuno tradì e soltanto settantaquattro gladiatori riuscirono a evitare la cattura. Fuggiti dalla caserma, essi si diressero a sud, e dopo circa 30 km di marcia si accamparono sui fianchi del Vesuvio. Le pareti del vulcano erano allora ricche di boschi e di campi molto fertili e i gladiatori vi trovarono un luogo sicuro in cui porre il loro quartier generale. Pochi giorni dopo giunse sul posto un contingente romano reclutato probabilmente dallo stesso Vazia, la quale tuttavia fu pesantemente sconfitta da Spartaco. Questo successo fece scattare la scintilla della ribellione in tutta l’area circostante e nel giro di pochissimo tempo migliaia di schiavi (per lo più provenienti dalle campagne) si unirono ai gladiatori. Le condizioni della Campania erano a quel tempo molto simili a quelle della Sicilia del II secolo a.C.: nella regione erano diffuse vaste tenute terriere (latifundia) controllate da ricchi proprietari che facevano largo uso di manodopera schiavile. Accanto a questa popolazione servile vi erano poi centinaia se non migliaia di piccoli proprietari terrieri italici o romani ridotti in condizioni davvero misere dalle espropriazioni compiute dai latifondisti e dalle guerre civili combattute nel decennio precedente. Come riportano le fonti, anche numerosi contadini si unirono dunque alla rivolta di Spartaco, forse perché spinti dal risentimento verso Roma o dalla prospettiva di arricchirsi con le razzie.
La risposta “ufficiale” da parte di Roma non si fece comunque attendere. In un primo momento il Senato, considerando i numerosi fronti bellici sui quali le armate della Repubblica erano già impegnate e basandosi sull’esperienza maturata a Capua nel 104 a.C., quando una piccola sollevazione di schiavi era stata repressa da una forza composta da una sola legione, inviò in Campania un pretore, C. Claudio Glabro, a comando di circa 3.000 uomini. Glabro si accampò ai piedi del Vesuvio con l’intenzione di prendere i ribelli per fame, ma durante la notte gli uomini di Spartaco ordirono un attacco improvviso all’accampamento romano e sbaragliarono in breve tempo i legionari. Il Senato, informato della sconfitta, decise allora di inviare altri due pretori a sud, Publio Varinio e Lucio Cossinio. Ai pretori fu dato l’ordine di arruolare uomini direttamente lungo la marcia e questo favorì i ribelli, che poterono così attaccare separatamente i vari contingenti che andavano radunandosi. Cossinio fu ucciso vicino a Pompei e anche gli uomini di Varinio furono completamente travolti.
A questo punto cominciarono a sorgere contrasti all’interno delle forze ribelli. Alcuni, guidati da Crisso ed Enomao, due gladiatori di origine celtica, volevano continuare con le razzie e i saccheggi ed estendere la guerra a tutta la penisola italica. Spartaco, al contrario, riteneva che i ribelli avrebbero dovuto dirigersi in fretta a nord, attraversare le Alpi e abbandonare la penisola prima del ritorno delle legioni romane impegnate in Oriente e in Spagna. Alla fine fu raggiunto un compromesso: siccome si era ormai in autunno inoltrato, i ribelli si sarebbero messi in marcia verso nord solo in primavera e avrebbero trascorso l’inverno cercando di allargare il fronte della ribellione.
Gli schiavi si diressero verso sud, in Lucania e poi nel Bruzio, dove speravano di poter aggregare al loro esercito i numerosi pastori della zona. Gli schiavi dediti alla pastorizia erano tra i più pericolosi, perché abituati a una vita fatta per lo più di brigantaggio e rapine. Nella loro marcia verso sud i ribelli si diedero alle razzie e colpirono, nell’ ordine, le città di Metaponto, Luceria e Turi. Giunti infine nella piana di Sibari, si accamparono per l’inverno. Nel frattempo la stessa composizione dell’esercito ribelle era venuta perfezionandosi: gli schiavi avevano migliorato il loro equipaggiamento con le armi prelevate ai romani, e le fucine delle città conquistate furono messe al lavoro per apportare ulteriori migliorie agli equipaggiamenti. La Basilicata, inoltre, era una regione ricca di cavalli selvaggi, molti dei quali furono domati dai ribelli per costituire un reparto di cavalleria. Spartaco non si fece mai proclamare re, come invece avevano fatto a loro tempo Euno e Salvio, preferendo rimanere un “semplice” condottiero. Il suo carisma però aumentò, oltre che per le ripetute vittorie a danno dei romani, anche grazie alla presenza di una profetessa, anch’essa di origine trace e probabilmente legata a lui sentimentalmente, che presentava Spartaco come favorito in battaglia dal dio Dioniso. Le file dei ribelli andarono a ingrossarsi nel corso dell’inverno fino a raggiungere il numero di circa 40.000 uomini.
Movimenti dei ribelli (blu) e delle forze romane (rosso) nel biennio 73-72 a.C.
Nella primavera del 72 a.C. Roma decise finalmente di rispondere in modo adeguato alla minaccia posta da Spartaco. Il comando della guerra fu affidato ai due consoli di quell’anno, Lucio Gellio e Cn. Cornelio Lentulo Clodiano, che arruolarono un esercito di circa 20.000 uomini. Le forze dei ribelli decisero invece di dividersi: Crisso, al comando di 10.000 uomini, rimase nel sud Italia ed estese le razzie all’Apulia; Spartaco, alla testa di circa 30.000 uomini, si mise in marcia verso nord.
Anche i consoli si divisero: Lentulo fu incaricato di sorvegliare Spartaco, mentre Gellio aveva il compito di intercettare e distruggere l’esercito di Crisso per poi portare man forte al collega. La battaglia tra Gellio e Crisso ebbe luogo presso il monte Gargano e questa volta furono i romani ad avere la meglio: le forze ribelli furono sbaragliate e lo stesso Crisso trovò la morte.
I consoli cercarono a questo punto di chiudere Spartaco in una morsa letale accerchiandolo sugli Appennini toscani. Tuttavia il Trace fu più abile dei romani e in uno scontro avvenuto a nord-ovest di Firenze (forse presso l’odierna Lentula, in provincia di Pistoia) riuscì ad affrontare e sconfiggere separatamente i due eserciti nemici. La vittoria fu completa: i romani furono costretti alla fuga mentre Spartaco, per umiliare ancora di più i nemici, organizzò splendidi giochi funebri in onore di Crisso facendo combattere fino alla morte i circa 400 prigionieri romani caduti in sua mano.
I ribelli proseguirono quindi la marcia verso nord dirigendosi su Mutina (l’odierna Modena), una colonia romana presidiata dal governatore C. Cassio Longino, padre del futuro cospiratore delle Idi di marzo, e da una forza di circa 10.000 uomini. Cassio cercò di sbarrare a Spartaco la strada verso le Alpi, ma i ribelli ebbero ancora una volta la meglio nello scontro: i romani furono sbaragliati e lo stesso Cassio si salvò a stento.
Giunto infine in vista delle Alpi, Spartaco decise di fare marcia indietro e di tornare nell’Italia meridionale. Le ragioni che portarono a questa scelta, in contraddizione con il piano a lungo inseguito di abbandonare la penisola italica, non sono chiare: forse furono gli uomini di Spartaco a fare pressioni sul comandante perché spaventati dall’attraversamento della temibile catena montuosa; forse furono le notizie che arrivavano dall’esterno a convincere Spartaco ad abbandonare il piano (i focolai di resistenza antiromana in Spagna e in Tracia erano stati spenti e così le speranze dei ribelli di poter trovare asilo in queste regioni); non è poi da escludere che lo stesso Spartaco, imbaldanzito dalle precedenti vittorie, credesse ormai possibile sconfiggere ripetutamente i romani in Italia e costringerli infine alla capitolazione.
Ad ogni modo, prima della conclusione dell’anno Spartaco riuscì a cogliere due nuovi, importanti successi: il primo nel Piceno, dove le forze dei ribelli riuscirono nuovamente ad avere la meglio sui due consoli, il secondo in Lucania, dove ad avere la peggio fu il propretore Manlio.
Campagna del 72 a.C.
Legenda: (blu) movimenti di Spartaco; (rosa) movimenti di Crisso; (rosso) movimenti del console Gellio; (arancio) movimenti del console Lentulo. Battaglie: 1) Gellio sconfigge Crisso; 2) Spartaco sconfigge il console Lentulo.
Nell’inverno del 72 a.C. il Senato, infuriato per le ripetute sconfitte subite dai consoli, decise di affidare il comando della guerra a Marco Licinio Crasso, protagonista del primo triumvirato. Crasso, che all’epoca aveva circa quarant’anni, era un personaggio molto popolare. Proveniente da una delle famiglie più antiche e nobili di Roma, egli aveva avuto modo di mettersi in mostra durante la guerra civile dell’83-81 a.C., quando si era schierato con Silla e aveva contribuito in modo decisivo al trionfo della battaglia di Porta Collina. In seguito Crasso si era arricchito sfruttando le proscrizioni sillane e impadronendosi di numerose tenute nell’Italia meridionale. Anche a Roma egli era a capo di una vasta catena di proprietà immobili e inoltre era solito prestare grosse somme ai senatori più in difficoltà, garantendosi in questo modo il loro perenne sostegno politico. Sul piano militare Crasso non era di certo un genio paragonabile a Cesare o Pompeo - morirà con disonore nella battaglia di Carre, nel 53 a.C. .- ma era dotato di una grande volontà e sapeva come imporre una ferrea disciplina tra le sue truppe. Il Senato gli diede facoltà di arruolare sei legioni, che unite con le quattro comandate in precedenza dai consoli, portarono il numero degli effettivi a sua disposizione a un totale di circa 45.000 uomini. Per avere la meglio su Spartaco, Crasso decise di cambiare tattica rispetto ai predecessori: suo obiettivo divenne il tentativo di trovare i ribelli, rinchiuderli in un posto dove i romani avrebbero potuto tagliarli fuori da ogni comunicazione e rifornimento e quindi massacrarli sistematicamente.
Testa di M. Licinio Crasso (Parigi, Museo del Louvre).
Per prima cosa Crasso si accampò in Lucania, nei pressi di Picentia. Quindi diede ordine a uno dei suoi legati, Mummio, di prendere due legioni e di sorvegliare i movimenti di Spartaco senza tuttavia entrare in battaglia. Mummio, tuttavia, disattese gli ordini e, giunto in vista dei ribelli, scatenò un confronto armato battaglia. Ancora una volta gli uomini di Spartaco ebbero la meglio e i romani si diedero alla fuga riparando presso l’accampamento di Crasso. Qui il comandante romano scelse di trasformare la disfatta in una lezione memorabile e impose ai primi 500 fuggitivi la pratica della decimazione 7.
A questo punto le fonti sono abbastanza avare di particolari: sembra comunque di capire che Crasso e Spartaco si affrontarono in alcune schermaglie, in cui furono i romani ad avere la meglio. Convinto ormai di avere di fronte un nemico diverso e più preparato dei precedenti, Spartaco decise di dirigersi ancora più a sud, puntando sulla città di Reggio. Suo obiettivo era ora di traghettare il suo esercito in Sicilia, una regione che poteva offrirgli riparo e ingrossare le sue schiere con nuovi schiavi. Dalla Sicilia sarebbe stato inoltre possibile garantirsi un passaggio per l’Africa, ed uscire in questo modo dalla stretta romana.
Tuttavia, l’esercito di Spartaco non disponeva di una flotta e per raggiungere la Sicilia l’ex gladiatore fu costretto a chiedere aiuto ai pirati 8. Consapevole di ciò, Spartaco prese contatti con alcuni pirati per garantire a un manipolo di suoi uomini un passaggio in Sicilia: se la traversata fosse andata a buon fine, questi uomini avrebbero potuto fomentare la rivolta sull’isola e inviare altre navi a raccogliere il resto dell’esercito.
Tuttavia i pirati ingannarono Spartaco: dopo aver ricevuto un pagamento anticipato essi non si presentarono all’appuntamento, forse perché timorosi del sopraggiungere della flotta romana o perché corrotti da Crasso. Abbandonato dai pirati, Spartaco tentò allora di provvedere da sé all’attraversamento facendo costruire ai suoi uomini delle zattere, ma le cattive condizioni meteorologiche - si era in pieno inverno - e i forti venti che soffiavano sullo stretto resero vano ogni tentativo. A Spartaco non rimase quindi che rifugiarsi con i suoi sulle alture dell’Aspromonte.
Nel frattempo l’esercito di Crasso aveva dato avvio a una gigantesca opera di fortificazioni, che, alternando fossati a mura di pietra e torri di guardia, mirava a chiudere ai ribelli ogni via di fuga verso nord. Spartaco provò una prima volta a sfondare la linea di difesa romana, ma fu respinto subendo gravi perdite. Un secondo tentativo, condotto di notte durante una tempesta, ebbe invece maggior successo e, pur lasciando sul campo diversi uomini, i ribelli riuscirono a forzare il blocco e ad allontanarsi nuovamente verso nord. A questo punto l’esercito si divise nuovamente: intenzione di Spartaco era di dirigersi nel Sannio, una zona aspra e tradizionalmente ostile ai romani, nella quale vi era quindi speranza di rimpolpare i ranghi dell’esercito; un gruppo composto da Celti e Germani e comandato da due uomini di nome Casto e Cannico decise invece di abbandonare il comandante, cui forse veniva imputato il disastro della spedizione siciliana. Certo è che per i ribelli la situazione era sensibilmente peggiorata: non solo Crasso rimaneva alle loro spalle con l’esercito praticamente intatto, ma nel frattempo il Senato aveva anche richiamato in Italia Cn. Pompeo Magno, reduce da una dura campagna condotta in Spagna contro le forze ribelli di Q. Sertorio. Con il ritorno di Pompeo in Italia il pericolo reale era di trovarsi stretti in una morsa letale.
La divisione dell’esercito di Spartaco favorì i Romani. Crasso riuscì a sorprendere il distaccamento comandato da Casto e Cannico a Cantenna (probabilmente l’odierna Giungano nei pressi di Paestum) e lo annientò completamente in una grande battaglia campale. Spartaco riuscì invece a fuggire e a infliggere una severa sconfitta ai contingenti che Crasso gli aveva messo alle spalle, e che invece di limitarsi a sorvegliarne i movimenti finirono per provocarlo a battaglia. Sembra che in seguito a questa vittoria Spartaco avesse accarezzato l’idea di dirigersi su Brindisi, con l’intenzione di riprovare a traghettare il suo esercito fuori dalla penisola italica. Tuttavia, ancor prima di mettersi in marcia, ricevette notizia che proprio a Brindisi era sbarcato un altro esercito romano, quello comandato da M. Terenzio Varrone Lucullo, di ritorno dalla vittoriosa campagna in Tracia.
Circondato ormai da ogni parte, Spartaco decise di dare battaglia a Crasso. Anche quest’ultimo era propenso allo scontro, anche se per ragioni squisitamente politiche: una netta vittoria conseguita prima dell’arrivo degli altri due eserciti gli avrebbe infatti dato la possibilità di arrogarsi il merito esclusivo di aver sconfitto i ribelli. I due eserciti si affrontarono quindi nella battaglia del Sele - la località precisa è ignota, forse presso Oliveto Citra, in provincia di Salerno - e i romani riportarono una schiacciante vittoria. Spartaco rimase ucciso nello scontro, insieme con migliaia di suoi compagni. Il suo corpo non fu ritrovato, ma probabilmente venne gettato insieme a quelli degli altri ribelli in una fossa comune. Gli schiavi catturati vivi subirono una sorte ancora peggiore: Crasso ne fece crocifiggere 6.000 sulla via Appia, la strada che collegava Roma a Capua, come monito per qualsiasi altro tentativo di insurrezione. Alcuni ribelli (circa 5.000) riuscirono a fuggire e a dirigersi verso nord, ma furono infine intercettati in Etruria dall’esercito di Pompeo e massacrati.
Hermann Vogel, La morte di Spartaco (1892).
Conclusioni
Dopo le tre grandi rivolte servili non si registrano più altre sollevazioni di schiavi, anche se gli ultimi seguaci di Spartaco si unirono probabilmente al dissidente romano Lucio Sergio Catilina nel suo tentativo di rivoluzione nel 63 a.C. Il fenomeno della schiavitù non scomparve, ma i romani presero da quel momento le dovute precauzioni: le scuole gladiatorie furono sottoposte a più rigidi controlli, mentre diversi anni più tardi C. Giulio Cesare, diventato dittatore, promulgò una legge agraria con l’obiettivo di aumentare la manodopera libera nelle campagne.
Le cause che portarono al fallimento di queste rivolte furono molteplici. Di sicuro ai ribelli mancò sempre un obiettivo politico unitario e realizzabile, e la rivolta di Spartaco dimostra come tra gli schiavi prevalessero soprattutto gli interessi personali e come fosse difficile, anche per un capo carismatico, imporre ai compagni una ferrea disciplina. Ciò nonostante le tre rivolte lasciarono una forte impressione nei romani. Nelle fonti, soprattutto quelle contemporanee agli eventi, tra cui Sallustio e Cicerone, si può cogliere una viva ammirazione per il coraggio mostrato dagli schiavi. Ancora a secoli di distanza Spartaco fu celebrato da Karl Marx come “il più grande dei condottieri romani” e “genuino rappresentante dell’antico proletariato”; promotore di un progetto egalitario cui successivamente attinsero, più o meno direttamente, movimenti sociali e rivoluzionari tra cui la Lega Spartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ad inizio XX secolo. La sua avventura, grandiosa e tragica allo stesso tempo, fu infine immortalata dal celebre kolossal hollywoodiano di Stanley Kubrick del 1960.
Suggerimenti di lettura
Fonti antiche:
- Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, libri XXXIV-XXXVI, Vol. 4, Palermo, Sellerio Editore, 2000.
- Strabone, Geografia, libro VI, Milano, BUR, 1988.
- Floro, Epitome di storia romana, libro II, Milano, Rusconi, 1981.
- Orosio, Storie contro i pagani, libro V, Milano, Mondadori, 1998.
- Plutarco, Vite parallele (Vita di Crasso), Torino, UTET, 2011.
- Appiano, Storia romana: libri XIII-XVII (Le guerre civili), Torino, UTET, 2001.
Studi moderni:
- B. Strauss, La guerra di Spartaco, Roma-Bari, Edizioni Laterza, 2009.
- K. R. Bradley, Slavery and Rebellion in the Roman World: 140-70 B.C., Indiana University Press, 1989.
- D. Foraboschi, La rivolta di Spartaco, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, Vol. 2.1, La repubblica imperiale, Torino, Einaudi, 1990, pp. 715-723.
- J. Andreau, R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Bologna, Il Mulino, 2009.
- Th. Urbainczyk, Spartaco, Bologna, Il Mulino, 2015.
- E. Lo Cascio, Crescita e declino: studi di storia dell’economia romana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2009.
1 Si ricorda per esempio la rifondazione delle colonie di Piacenza e Cremona nel 190 a.C., quella della colonia latina di Bologna nel 189 a.C., Modena e Parma nel 183 a.C., Aquileia nel 181 a.C., Luni e Lucca nel 180 a.C.
2 Per citare alcuni dati, le fonti ricordano la riduzione in schiavitù di 25.000 persone nel 262 a.C. in seguito alla conquista di Agrigento, 13.000 nel 254 a.C. dopo la cattura di Palermo, 40.000 nel 209 a.C. dopo la riconquista della Puglia, 150.000 nel 167 a.C. alla conclusione della guerra in Epiro, 55.000 nel 146 a.C. dopo la distruzione di Cartagine.
3 Un dato sulla vastità del fenomeno ci viene dal geografo Strabone, il quale riporta che verso la metà del II secolo a.C. il mercato di Delo era in grado di sostenere la compravendita di circa 10.000 schiavi ogni giorno.
4 Astarte o Atargatis è una delle numerose rappresentazioni della “Grande Madre Terra”.
5 Per far fronte alle sempre più pressanti necessità militari e alle difficoltà di reclutamento, il Senato aveva imposto agli alleati provinciali di fornire un numero straordinario di contingenti ausiliari. A queste richieste alcuni alleati, tra cui Nicomede di Bitinia, avevano però risposto lamentando il fatto che non era possibile fornire alcun contingente poiché i reclutatori di schiavi avevano completamente spopolato i loro territori prendendo in ostaggio tutti gli uomini liberi. Il Senato romano si era allora visto costretto a emanare un decreto con cui si autorizzava l’apertura di un’inchiesta e l’eventuale liberazione immediata di tutti coloro che erano caduti in schiavitù ingiustamente. Il provvedimento era stato esteso anche alla Sicilia, dove il governatore Nerva aveva presieduto alla liberazione di più di 800 schiavi. Ben presto, tuttavia, Nerva abrogò il provvedimento a causa delle forti pressioni esercitate dai padroni di schiavi e soprattutto dai grandi proprietari terrieri. La marcia indietro di Nerva provocò ovviamente grandi rimostranze tra coloro che auspicavano di essere liberati e anche tra quegli schiavi che, seppur liberati, vedevano ora minacciata la propria condizione.
6 A causa di ciò, una volta tornato a Roma, egli fu condannato all’esilio.
7 Questa era un’antica punizione militare, caduta ormai in disuso, che prevedeva di estrarre a sorte un decimo dei fuggitivi e di farli bastonare a morte dai compagni: il senso della punizione era di offrire un esempio indimenticabile tale da scoraggiare ogni futuro tentativo di fuga. L’espediente ebbe successo e Crasso riuscì in questo modo a ripristinare tra i suoi soldati una ferrea disciplina.
8 La pirateria era un altro dei mali che affliggevano la Repubblica romana nel I secolo a.C.: in un primo momento i romani l’avevano tollerata, ed anzi, i pirati si erano trovati spesso a commerciare schiavi con Roma, ma a lungo andare i corsari si erano fatti sempre più temerari ed erano giunti a compiere scorrerie sulle stesse coste della penisola italica.