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Il "De vulgari eloquentia" di Dante: traduzione di alcuni estratti

Il De vulgari eloquentia è un trattato (in due libri, ma incompleto) sulla lingua che Dante scrive negli stessi anni del Convivio con l'intenzione di trattare il problema della lingua volgare e del suo uso a fini letterario-estetici. Nel momento in cui inaugura la storiografia letteraria italiana, Alighieri si concentra soprattutto sul piano geografico (tracciando cioè una cartina sulla distribuzione dei diversi volgari lungo la Penisola) e sul modello di lingua che egli va cercando (nell'ottica quindi di scegliere un determinato volgare quale lingua 'ufficiale' per l'uso letterario).
Rivolgendosi ad un pubblico selezionato di esperti, l’autore del De vulgari eloquentia scrive il suo trattato in latino, ma al tempo stesso sottolinea con forza il ruolo del volgare nella comunità umana. L'opera si apre con un veloce excursus che traccia la storia del linguaggio umano a partire dalla vicenda della Torre di Babele fino alla definizione di una norma grammaticale stabile come il latino che, in tal senso, sarebbe una lingua nata dopo i volgari nazionali, e funzionale alla comunicazione tra le diverse comunità; Dante poi suddivide le lingue europee in tre regioni, quella orientale-greca, quella settentrionale-germanica e quella meridionale, su cui poi si sofferma meglio. Quest’area viene a sua volta segmentata secondo la forma della particella affermativa: le lingue d’oc e d’oïl in Francia, la lingua del “sì” in Italia.
Così, nel decimo capitolo del primo libro, Dante traccia un’inedita geografia dei volgari italiani, divisi tra ‘destra’ e ‘sinistra’ secondo il percorso di risalita dello ‘stivale’ italiano:

 

[Libro I, capitolo X, paragrafo 6] Dicimus ergo primo Latium bipartitum esse in dextrum et sinistrum. Si quis autem querat de linea dividente, breviter respondemus esse iugum Apenini, quod, ceu fistule culmen hinc inde ad diversa stillicidia grundat aquas, ad alterna hinc inde litora per ymbricia longa distillat, ut Lucanus in secundo describit: dextrum quoque latus Tyrenum mare grundatorium habet, levum vero in Adriaticum cadit. Et dextri regiones sunt Apulia, sed non tota, Roma, Ducatus, Tuscia et Ianuensis Marchia; sinistri autem pars Apulie, Marchia Anconitana, Romandiola, Lombardia, Marchia Trivisiana cum Venetiis.  Forum Iulii vero et Ystria non nisi leve Ytalie esse possunt; nec insule Tyreni maris, videlicet Sicilia et Sardinia, non nisi dextre Ytalie sunt, vel ad dextram Ytaliam sociande. [...]  Quare ad minus xiiii vulgaribus sola videtur Ytalia variari. Que adhuc omnia vulgaria in sese variantur, ut puta in Tuscia Senenses et Aretini, in Lombardia Ferrarenses et Placentini; nec non in eadem civitate aliqualem variationem perpendimus, ut superius in capitulo immediato posuimus.

 

Traduzione: Diciamo innanzitutto che l’Italia è suddivisa in due metà, una a destra e l’altra a sinistra. E se qualcuno ci domanda quale sia la linea di divisione, spieghiamo brevemente che è la schiera dell’Appennino, che, come il profilo di una grondaia divide le acque dall’una e dall’altra parte le acque sgocciolanti, così sgocciola per lunghi canali da una parte e dall’altra sui due litorali, come Lucano giustamente descrive nel secondo libro della sua opera [allusione al poema Pharsalia di Lucano]. La parte destra sfocia nel Tirreno, l’altra cade nel mare Adriatico. Le regioni di destra sono l’Apulia (ma non tutta), Roma, il Ducato, la Toscana, la Marca di Genova; a sinistra ci sono parte dell’Apulia, il territorio di Ancona, la Romagna, la Lombardia, la Marca trevigiana con la città di Venezia. In effetti, il Friuli e l’Istria non possono appartenere al lato sinistro dell’Italia, mentre le isole tirrene, ovvero Sicilia e Sardegna, fanno senza dubbio parte dell’Italia di destra, o meglio vanno associate ad essa. [...] Quindi, appare chiaro che l’Italia da sola presenta almeno quattordici volgari. Questi poi si diversificano al loro interno, come ad esempio in Toscana il [volgare] senese e quello aretino, in Lombardia il ferrarese e il piacentino; tralasciando poi che nella stessa città possiamo trovare differenze, come già abbiamo affermato nel capitolo precedente.

La ricerca di Dante è lunga e complessa, proprio perché egli cerca una lingua - come sarà poi quella della Commedia - che sappia piegarsi a tutti gli usi e le necessità che la creazione letteraria impone, in grado pure di rivaleggiare con l’ingombrante concorrenza del latino. L'Alighieri allora, nel sedicesimo capitolo del primo libro, si serve dell’immagine della pantera odorosa (immagine tipica dei ‘bestiari’ medievali che Dante conosceva benissimo) per prefigurare le caratteristiche di un volgare che dovrebbe sommare le qualità di ogni dialetto nazionale:

 

[Libro I, capitolo XVI, paragrafo 1] Postquam venati saltus et pascua sumus Ytalie, nec pantheram quam sequimur adinvenimus, ut ipsam reperire possimus rationabilius investigemus de illa ut, solerti studio, redolentem ubique et necubi apparentem nostris penitus irretiamus tenticulis. [...]  Que quidem nobilissima sunt earum que Latinorum sunt actiones, hec nullius civitatis Ytalie propria sunt, et in omnibus comunia sunt: inter que nunc potest illud discerni vulgare quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. [...] Itaque, adepti quod querebamus, dicimus illustre, cardinale, aulicum et curiale vulgare in Latio quod omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur.

 

Traduzione: Dopo che siamo andati a caccia per boschi e pascoli d’Italia ma non siamo riusciti a trovare la pantera che volevamo stanare, continuiamo la ricerca con strumenti più razionali, così che, con un’applicazione solerte, sia possibile catturare con i nostri lacci quella belva che non compare da nessuna parte ma che fa sentire ovunque il suo odore [...] E certamente le azioni più nobili fra quelle compiute dagli Italiani non sono proprie di nessuna città d’Italia, ma comuni a tutte; quindi fra queste si può individuare quella lingua volgare che prima braccavamo, che fa sentire il suo profumo dappertutto ma che non ha la sua tana in alcuna città precisa. [...] Alla fine, abbiamo trovato ciò che cercavamo: in Italia il volgare illustre, cardinale, aulico, e curiale è quello che è parlato in ogni città della Penisola ma non pare appartenere a nessuna di esse, e rispetto al quale tutte le varietà municipali devono essere misurate, ponderate e comparate