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I temi del "Decameron" di Boccaccio: Fortuna, Amore e Ingegno

Se il nome “Decameron” indica di per sé una narrazione delle cento novelle in dieci giorni, uno sguardo più ravvicinato sulla cronologia e sull’organizzazione interna del libro può darci molte informazioni su come Boccaccio scelga di distribuire i propri testi, e sulle interpretazioni possibili di tale organizzazione. La suddivisione per argomento  risponde infatti a diverse necessità; la prima è sicuramente quella di disegnare un itinerario narrativo che tocchi tutti i punti cardinali dell’ideologia e della visione del mondo dell’autore, e cioè:

- la Fortuna, e il suo effetto sulle azioni umane;
- la Natura dell’uomo e della donna, con particolare attenzione per la forza dell’Amore;
- la produttiva messa in pratica delle capacità umane, in relazione alle due forze precedenti.

La Fortuna per l’autore del Decameron è essenzialmente imprevedibilità dei fatti umani, che vengono guidati e spesso sconvolti da forze avventurose che l’uomo non può controllare, ma da cui può trarre, se ne è capace, un profitto. È il caso delle novelle della seconda giornata, sotto il reggimento di Filomena, come quelle di Andreuccio da Perugia o di Landolfo Rufolo, tutte basate sull’elemento portante dell’intreccio (e sul tema del viaggio). La Fortuna, favorevole o avversa, è così una forza onnipresente in tutto il Decameron e in ogni sua sfaccettatura narrativa. Lo dimostra anche solo una ricerca delle “occorrenze”, ovvero del numero di volte che un determinato termine viene utilizzato in un testo: “fortuna” abbonderà soprattutto nella seconda, nella quinta e nella decima giornata.

L’Amore, introdotto da Neifile nella terza giornata, giunge al proprio apogeo nelle due giornate successive, dove si presentano amori infelici (nella quarta giornata) e vicende che invece vedono il coronamento dei desideri d’amore nobili ed elevati dei loro protagonisti (la quinta giornata). E moltissime saranno le forme, rappresentazioni, sfumature ed implicazioni dell’amore e della passione nel Decameron, che Boccaccio spiega e giustifica, difendendosi dalle accuse, nella nota Introduzione alla quarta giornata con la “novella delle papere”. Qui l’amore è il principale impulso naturale, cui è inutile ed improduttivo voler mettere un freno; e in tal senso, ben settanta novelle toccano, direttamente o indirettamente, un soggetto amoroso o erotico (anche in novelle in cui è prevalente il tema della Fortuna o dell’ingegno, come quella di Chichibio).

La Natura, “ministra” del mondo umano, coordina i nostri diversi impulsi, spesso in concorrenza o conflitto con la Fortuna stessa: le capacità del singolo devono allora essere messe all’opera per cogliere il giusto premio delle proprie virtù (sesta giornata). Come la novella di Cisti fornaio dimostra, chi sa sfruttare l’occasione che il caso gli offre può anche superare un iniziale svantaggio. Il “motto”, tipico dei personaggi boccacciani, è così la dimostrazione principale della loro intelligenza, cui si affianca la “beffa”, ovvero l’inganno abilmente ordito alle spalle di qualcuno (tipico della settima e ottava giornata).

La decima giornata eleva sia il livello stilistico che quello contenutistico delle novelle, affrontando il problema della “fama” dell’individuo; quali sono quindi i valori di riferimento che l’autore intende consegnare ai suoi lettori? La risposta è difficile, come ben esemplificato dalla novella di Griselda. Il sistema di valori di Boccaccio è, da un lato, nostalgicamente proiettato nel passato dei valori aristocratico-cortesi e disegna un itinerario, tipicamente ascensionale, che va dal vizio alla virtù; dall’altro, proprio la rappresentazione della multiforme varietà del reale non permette una lettura univoca e piana, esaltando invece la contrapposizione tra Fortuna e Natura, tra valori feudali e nuova mentalità mercantile borghese, l’antitesi costante tra Ordine e Caos.

 

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È cosa nota che il nome "Decameron" significhi letteralmente “dieci giorni” e faccia riferimento  al particolare cronologico chiave della cosiddetta cornice del Libro: le dieci giornate di conversazione e racconti novellistici che intrattengono una brigata di dieci giovani, fuggiti dalla peste del 1348 in vari luoghi ameni del contado fiorentino. Tale organizzazione della narrazione in giornate permette di ordinare e strutturare le cento novelle raccontate raggruppandole per argomento. Ad eccezione della prima e della nona giornata, in cui le novelle sono a tema libero, infatti, nelle altre giornate del Decameron il re o la regina di turno impongono al novellare dell’onesta brigata un preciso argomento, che troviamo riassunto nelle rubriche di apertura sempre introdotto dall’espressione ricorrente “si ragiona  di...”. Il succedersi degli argomenti delle giornate non è casuale, ma disegna un percorso attraverso i principali nodi concettuali dell’ideologia boccacciana:

- la Fortuna
- la Natura e in particolare l’amore
- infine l’Uomo e le sue capacità, espresse nelle parole e nelle azioni.

Questi elementi sono in realtà così fondanti nella visione – e quindi nella rappresentazione – del mondo da parte del nostro Autore da essere praticamente onnipresenti in ogni punto del suo libro: la loro specifica messa a tema in alcune giornate e secondo un preciso ordine consente  tuttavia la possibilità di rappresentazione nello spazio della cornice di momenti di discussione e teorizzazione a riguardo da parte della brigata che “vi ragiona” sopra, e quindi una migliore messa a fuoco delle idee dell’autore da parte del lettore/ascoltatore.  In principio del suo percorso narrativo, Boccaccio pone il tema della Fortuna, dipinta come “ministra”, cioè come grande forza dominatrice dei destini umani, nonché motore delle loro narrazioni (come era stata per la nascita stessa del Decameron e del racconto delle novelle):

Dal principio del mondo gli uomini [sono] stati da diversi casi della fortuna menati, e saranno infino al fine”, dice dunque la regina della seconda giornata, Filomena, per introdurre e giustificare il tema da lei scelto: cioè che “ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla speranza riuscito a lieto fine.

Tra i vari aspetti della fortuna, quello che viene messo specificatamente a tema e portato al massimo delle sue potenzialità in questa seconda giornata è la sua imprevedibilità: se la prima delle prescrizioni date dalla regina è che si raccontino vicende avventurose e a lieto fine (“chi, da diverse cose infestato, sia [...] riuscito a lieto fine”), la seconda è che la conclusione debba essere “oltre alla speranza” del protagonista, ovvero contenere un rivolgimento del tutto inaspettato. Nelle novelle di questa giornata, tra le quali possiamo ricordare Andreuccio da Perugia e Landolfo Rufolo, l’elemento strutturale portante diventa l’intreccio, con conseguenze rilevanti anche su altri aspetti della narrazione, quali la lunghezza (la seconda giornata è la più lunga tra le dieci) e le coordinate spazio-temporali (molte di queste novelle appartengono al sottogruppo delle “novelle di viaggio” e coprono tempi e spazi molto ampi). Il racconto di novelle dedicate espressamente a un tema porta spesso i giovani della brigata a fare alcune riflessioni. Per quanto riguarda la Fortuna, la riflessione più estesa spetta a Pampinea, la più matura tra le donne della compagnia: “quanto più si parla de' fatti della fortuna,” – commenta apprestandosi ad essere narratrice della terza novella – “tanto più, a chi vuole le sue cose ben riguardare, ne resta a poter dire: e di ciò niuno dee aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa d'uno in altro e d'altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate”. La proclamazione della continua mutabilità delle cose del mondo è poi ripresa anche dalla voce diretta dell’Autore all’altro capo del Libro, nella Conclusione, quasi a racchiudere circolarmente la sua opera nel perimetro di questa visione delle cose: “Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento” (Conclusione, paragrafo 27). 

A considerare già solo queste dichiarazioni di principio, non deve dunque parer strano che il tema della Fortuna – nelle vesti di forza favorevole o sfavorevole, capace di elevare socialmente gli uomini o di prostrarli – non rimanga affatto relegato nella giornata che vi è ufficialmente e nominalmente dedicata, ma sia presente in realtà in ogni momento narrativo del Decameron. Basta solo guardare alla presenza diffusa della stessa parola “Fortuna” in tutte le giornate, con picchi di occorrenze pari a quelli della seconda anche in giornate come la quinta (dov’è tra l’altro la novella con il più alto numero di occorrenze di tutto il libro, ovvero la novella di Cimone) e la decima. Nel Proemio l’autore aveva del resto anticipato che: “Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vedranno” (Proemio, paragrafo 14), dove quel ”altri” fa presupporre che anche i “casi d’amore” citati per primi non siano che un sottoinsieme dei “casi della fortuna”, categoria quindi onnicomprensiva di tutte le novelle. Quello dipinto dal Boccaccio è insomma un mondo sempre caratterizzato dalla precarietà, in cui tutti gli elementi di certezza (affetti, fortune e desideri) sono in realtà instabili, continuamente messi a rischio, talvolta anche travolti. Il tema della terza giornata viene così introdotto dalla sua regina, Neifile, come proseguimento, o meglio restringimento, di quello della fortuna della giornata precedente:

[...] sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa del novellare la licenzia e che sopra uno de' molti fatti della fortuna si dica, e ho pensato che questo sarà: di chi alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse.

Questa terza giornata, tuttavia, può considerarsi una giornata dedicata alla fortuna solo in senso lato: il titolo assegnato fa infatti genericamente riferimento ad una cosa desiderata, che è sempre un oggetto di tipo sessuale (una donna per un uomo e viceversa), il cui ottenimento è raggiunto più o meno onestamente per “industria” (cioè per intelligenza), o per fortuna o per entrambe le cose insieme. La terza giornata introduce così al macro-tema delle due giornate successive – quello dell’amore – contribuendo a declinarlo su una sorta di scala di registro: III giornata = amore fortunato, sessualmente libero e spregiudicato > IV giornata: “si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine” = amore tragico e sfortunato > V giornata: “si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse” = amore fortunato, ma nella tonalità alta di un sentimento nobile ed elevato, costretto a passare attraverso prove avverse.

Nel Decameron il tema erotico-amoroso viene dunque rappresentato in una straordinaria molteplicità di forme, sfumature e motivi e risultati, e tra l’altro senza nessuna censura, né di possibili protagonisti in vesti religiose, né delle componenti anche più carnali (e il narratore non risparmia di registrare talvolta l’imbarazzo delle stesse giovani della brigata all’ascolto o al racconto dei particolari più licenziosi). L’indulgere anche a questi aspetti costò al Boccaccio un’accusa di immoralità, che egli si preoccupò di controbattere all’interno del testo, in particolare nell’Introduzione alla IV giornata – la prima ufficialmente dedicata al tema amoroso nonché immediatamente successiva alla terza, camuffata da giornata dell’”industria” e della fortuna, ma in realtà, come abbiamo detto, a tema sessuale. 

Nella sua argomentazione Boccaccio ricorre anche alla narrazione della cosiddetta “novella delle papere”, l’unica raccontata direttamente dall’Autore e non dai personaggi della cornice e quindi contata come la centunesima novella del Decameron. In questa novella, un personaggio fiorentino di nome Filippo Balducci cerca di proteggere il suo unico figlio dalle sofferenze dell’amore, facendolo vivere come eremita dedito soltanto al servizio di Dio e completamente all’oscuro dell’esistenza delle donne. Il piano del padre è però destinato al fallimento: nonostante anni di preparazione e di tentativi di sopprimere i suoi impulsi, al primo incontro con “una brigata di belle giovani donne” (che il padre, richiesto di cosa fossero, non ha neanche il coraggio di chiamare con il loro nome, ma nomina invece come “papere”) il giovane se ne sente irrimediabilmente attratto. La novella si interrompe sul pensiero di Filippo Balducci di fronte al desiderio del figlio: “sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno”. La parola chiave è Natura: nell’ideologia boccacciana l’amore è uno – anzi, il maggiore – degli impulsi naturali. “Io conosco” dice Boccaccio rivolgendosi al suo pubblico femminile ”che altra cosa dir non potrà alcuno con ragione, se non che gli altri e io che v’amiamo, naturalmente operiamo”, cioè “ci comportiamo secondo natura”. E poi aggiunge: “alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante si adoperano”.

Dimostrazione memorabile di questa incontrollabilità/incontrastabilità dell’Eros sarà proprio la novella raccontata subito dopo, la prima della IV giornata, in cui, come riassume la rubrica:

Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee e così muore”. Davanti al proprio oppositore, il principe Tancredi, entrambi gli amanti pronunciano una stessa difesa: le uniche parole di Guiscardo sono “Amor può troppo più che voi e io possiamo” e Ghismunda dichiara che alla forza della carne, della gioventù e del piacere “ Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora'mi.

Ma al di là delle novelle delle giornate dedicate esplicitamente ai “piacevoli e aspri casi d’amore”, l’Eros è tema così predominante nell’ideologia del Boccaccio e nella sua vena narrativa che, secondo i calcoli di Asor Rosa, sono più di settanta le novelle che toccano, direttamente o indirettamente, un soggetto erotico. Oltre le novelle della III, IV, V giornata, possiamo per esempio contare per intero anche quelle della VII (che tratta delle beffe fatte dalle donne ai mariti, quasi sempre con intenzioni adultere) e poi molte altre sparse in tutte le restanti giornate. Si pensi per esempio ad una novella della VI giornata, quella di Chichibio, in cui il cuoco è indotto a commettere l’infrazione centrale della novella (il taglio della coscia della gru che sta cucinando per il suo signore) dal desiderio di ottenere le grazie della bella Brunetta; oppure si può pensare ancora alla novella di Andreuccio da Perugia nella II giornata, in cui lo sprovveduto mercante accetta di incontrare la donna che lo deruberà pensando che sia una fanciulla innamorata di lui. Nel suo complesso, la Natura (nella quale, oltre all’amore, possiamo far entrare anche altri impulsi e lo stesso “temperamento” individuale di un uomo) è dunque una forza ministra del mondo alla pari con quell’altra grandissima della Fortuna e con essa spesso in concorrenza, se non addirittura in conflitto. Per fare un esempio, basta riprendere la novella di Ghismunda e Tancredi già citata: all’inizio Amore e Fortuna sono alleati con gli amanti (“Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m'avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a' miei disideri perveniva”), ma poi la seconda cambia faccia (“Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de' due amanti rivolse in tristo pianto.”). Anche questa volta spetta a Pampinea la più limpida teorizzazione dei rapporti tra Fortuna e Natura, nell’introduzione alla novella di Cisti fornaio:

Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino.

Questa novella si colloca nella VI giornata, dedicata specificatamente alle capacità dell’uomo. E non è un caso che il discorso di Pampinea su Fortuna e Natura si collochi in questo contesto: è proprio  assecondando o lottando con queste due forze che si conduce la vita dell’uomo e trovano spazio d’azione le sue virtù. La prima di queste ad essere esaltata - con una specifica messa a tema, e non a caso proprio al centro del libro - è l’intelligenza umana che si esprime per mezzo della parola: la VI giornata è infatti dedicata a “chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno”. Anche qui la teorizzazione dell’importanza del motto (definito in VI, 3 come “morso della pecora”, cioè come parola pungente, ma in modo lieve) spetta a Pampinea, addirittura già nella prima giornata, ed è poi ripresa all’inizio della VI da Filomena. La settima e l’ottava giornata sono invece legate al tema della beffa (prima quelle fatte dalle mogli ai mariti, poi anche quelle fatte da uomo a donna o da uomo a uomo). In queste due giornate vengono esaltati ed esplorati i modi e le capacità di combinare parola e azione, con scopo utile (il raggiungimento di un desiderio) oppure del tutto gratuito, come nel caso delle beffe fini a se stesse fatte a Calandrino.

È interessante notare che queste tre giornate delle novelle di motto e di beffa sono caratterizzate da un’ambientazione omogenea, prevalentemente fiorentino-toscana. È invece prevalentemente non toscana la decima giornata, in cui – adottando un livello stilistico molto alto, corrispondente tra l’altro a protagonisti tra cui si annoverano molti re e nobili – “si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a fatti d’amore o d’altra cosa”.  A giustificare tale tema, e la sua importanza per le ricadute pragmatiche che può avere, il re Panfilo scomoda niente meno che il concetto di fama e una citazione dantesca: “Queste cose e dicendo e faccendo senza alcun dubbio gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà: ché la vita nostra, che altro che brieve esser non può nel mortal corpo, si perpetuerà nella laudevole fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non serve, dee non solamente desiderare ma con ogni studio cercare e operare".

Le novelle della decima giornata affrontano dunque problemi di comportamento mondano capaci di eternare l’individuo (e attenzione, che non viene qui tirata in ballo nessuna visione salvifica religiosa): considerando che tali novelle (tra cui possiamo ricordare per esempio almeno quella di Griselda e il marchese di Saluzzo) rappresentano la conclusione del Decameron, è fondamentale capire quali siano i valori di riferimento che Boccaccio vuole lasciare per ultimi al suo lettore. Innanzitutto, le novelle di questa giornata sono congruenti a quelle della VI, pur poste su un diverso registro stilistico e con protagonisti di classe sociale mediamente più bassa: se si pensa a novelle come quelle di Cisti fornaio o di Guido Cavalcanti, si comprende che il motto viene spesso usato per definire un comportamento, un’attitudine morale, una scelta mondana. A guardare queste e quelle novelle, e senza dimenticare che finiscono tutte sempre con successo, ne emerge che il sistema etico del Boccaccio ruota anche (o ancora) intorno a valori di riferimento che sanno nostalgicamente di un buon tempo antico e di una società nobiliare, quali ad esempio cortesia, gentilezza, dignità, culto del valore, gratitudine(e sono tutti nobili, tra l’altro, anche i giovani della brigata). 

Sono dunque questi valori a concludere lo straordinario percorso del Decameron, autorizzandone una lettura “ascensionale”, dal vizio alla virtù, che legherebbe il testo boccacciano ai modelli letterari tipicamente medievali (la lettura ascensionale fu sostenuta in particolar modo dal critico Vittore Branca); se la prima novella, quella di Ser Cepparello, rappresenta il punto moralmente più basso a cui può arrivare l’uomo, le novelle della decima (e tra queste possiamo ricordare l’ultima e la sua grande e virtuosa protagonista femminile: Griselda, paziente moglie del marchese di Saluzzo) invece lo dimostrano capace di straordinarie altezze. Gli studiosi odierni tendono però oggi a riequilibrare questa lettura, sottolineando come la rappresentazione protoromanzesca (in una forma che cioè preannuncia il romanzo come lo conosciamo oggi) della multiforme varietà del reale, messa in atto dal Decameron, ne autorizzi a sovrapporre molte altre, a partire dalla visione di un mondo in cui niente è più certo e stabile se non gli impulsi naturali, in cui i valori del mondo borghese e mercantile (a partire dalla concezione di una vita il cui successo è dettato tanto dalla fortuna quanto dalla propria intelligenza) convivono con quelli feudali-cavallereschi, in cui il caos dei “fortunati avvenimenti” può trovare argine nell’ordine creato dall’intelligenza e dai valori più alti dell’uomo.