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Seneca, De brevitate vitae: riassunto e analisi

Introduzione

 

Il De brevitate vitae è il decimo dei Dialoghi di Seneca. Venne composto probabilmente poco prima del 24 Gennaio del 50 d.C. 1.

 

Struttura e contenuto

 

L'opera è dedicata a Pompeo Paolino, cavaliere 2 originario di Arles e prefetto dell'Annona. Con un dialogare vivace e discorsivo, Seneca comincia da subito a criticare quanti si lamentano per la brevità della vita umana, non risparmiando nemmeno personaggi famosi per la loro sapienza come Ippocrate, fondatore della medicina “scientifica”, e il filosofo Aristotele (capitolo 1). A detta di Seneca l'esistenza umana non è breve, ma viene resa tale dalla nostra incapacità di adoperare il tempo che ci è stato assegnato in maniera proficua. Molti infatti sprecano i propri giorni negli affari pubblici (i negotia), ora impegnandosi in una campagna elettorale, ora ascoltando i propri clienti, ora contendendosi un’eredità. Tutto questo avviene perché non ci si rende conto del fatto che il tempo è il nostro bene più prezioso. Gli uomini sono spesso restii a dare il proprio denaro, ma concedono con facilità il proprio tempo, non rendendosi conto che è proprio questa l'unica cosa per cui sia giusto essere avari (capitoli 2-3).

Gli occupati - così Seneca definisce, quasi con disprezzo, le persone impegnate in attività non essenziali - sprecano il presente, che è l'unico tempo veramente in loro possesso, e rimandano alla vecchiaia il momento in cui potranno finalmente dedicarsi all'otium. Seneca rafforza questa sua teoria citando le parole di tre celebri occupati che lasciarono nei loro scritti lamentele di questo tipo: l'imperatore Augusto, il retore Cicerone e il tribuno della plebe Livio Druso 3 (capitoli 4-6).  Ma non sono solo i negotia a consumare il tempo degli uomini. Anche le attività svolte nel tempo libero (gli otia) possono rivelarsi un ostacolo al nostro vivere. Tra queste attività possiamo contare i banchetti, l'attenzione nei confronti della propria capigliatura e del gioco della palla, e persino l'eccessiva erudizione storica riguardante fatti di scarsa importanza o in certi casi addirittura meritevoli di essere scordati, come le notizie riguardanti i sanguinosi giochi del circo (capitoli 12-13).

L'unico modo per usare in maniera proficua il proprio tempo consiste dunque nel ritirarsi a vita privata e dedicarsi alla filosofia, la sola attività che consente a chi vi si applica di conoscere il pensiero degli uomini più saggi dell'antichità, con cui possiamo dialogare come se fossero nostri contemporanei, rendendoci di fatto simili a un dio (capitoli 14-15). Per questo Seneca invita il destinatario dell'opera, Paolino, a ritirarsi dalla vita pubblica (capitoli 18-19), poiché solo il saggio vive veramente e, per quanto poco a lungo abbia vissuto, è sempre disposto a morire senza rimpianti (capitolo 11), mentre gli occupati non possono dire di aver vissuto veramente (capitolo 20).

 

Genere e stile

 

Il De brevitate vitae fa parte di un gruppo di dodici dialoghi scritti da Seneca. Ma il termine “dialogo” è nel caso di Seneca estremamente fuorviante: se si esclude il De tranquillitate animi (dialogo IX), la forma assunta da queste opere non è per nulla simile ai dialoghi platonici o aristotelici, dove in maniera simile a uno spettacolo teatrale due o più personaggi si scambiano le rispettive opinioni all'interno di un discorso in certi casi anche molto simile al parlato. In Seneca l'unico a parlare è sempre l'autore, mentre la sola forma di contraddittorio si trova nelle rimostranze che l'autore stesso immagina che si potrebbero rivolgere alle teorie che espone (è l'artificio retorico del finto contraddittore). In tal senso, in Seneca “dialogo” va inteso nel senso originario di “trattazione, dissertazione”.

Per quanto la tradizione filosofica latina di cui Seneca era erede avesse al suo interno opere come le Tusculanae disputationes di Cicerone, in cui la presenza dell'interlocutore era quasi del tutto assente, il vero modello dei Dialoghi erano le diatribe popolari. Questo genere letterario era sorto in età ellenistica nell'ambito della filosofia cinica. A differenza delle altre scuole filosofiche quella cinica, fondata da Diogene di Sinope e basata sul principio dell'autosufficienza e dell'inutilità delle ricchezze, era molto vicina al popolo. Per diffondere la propria filosofia i cinici si recavano spesso al mercato, attiravano l'attenzione della gente rotolandosi per terra o compiendo altre azioni strane e cominciavano a declamare discorsi di varia natura, per lo più rivolti contro il lusso, il commercio e le altre attività che - a loro dire - non erano necessarie all'uomo. Le diatribe erano dunque nate per diffondere il sapere filosofico tra persone che non erano “addette ai lavori” e proprio per questo motivo dovevano avere un linguaggio semplice e vicino al parlato, un’argomentazione non troppo complessa e alla portata di tutti e privilegiare temi di natura etico-morale. Il discorso non aveva inoltre una struttura predefinita, ma l'autore improvvisava sfruttando gli spunti che venivano tratti dall'argomento stesso della diatriba. Frequenti erano anche i riferimenti alla vita quotidiana, che svolgevano la funzione di rendere maggiormente comprensibili i concetti più difficili e di attirare l'attenzione dell'uditorio.

Anche all'interno del De brevitate vitae Seneca fa uso di tutte queste strategie. Frequentissimo è infatti l'utilizzo di esempi, tratti sia dalla vita quotidiana della nobiltà dell'epoca, sia da personaggi famosi come appunto Augusto, Cicerone e Druso. Il continuo utilizzo di domande retoriche e una preferenza per la paratassi invece che per l'ipotassi, tipico della costruzione del periodo senechiana, rende il suo scritto di lettura veloce e simile al linguaggio parlato. Caratteristica anche l’abilità con cui Seneca concentra il proprio pensiero in brevi frasi epigrammatiche e sentenziose, da cui proviene il netto appello al lettore affinché non sprechi i giorni della sua vita 4.

Anche la dedica dell'opera a un personaggio proveniente dal ceto degli equites e probabilmente non esperto di filosofia serviva a tenere volutamente il tono generale della conversazione a un livello medio, evitando tecnicismi o questioni eccessivamente specialistiche. Ma Paolino era pur sempre un personaggio di estrazione elevata e questo fatto escludeva una delle caratteristiche proprie della diatriba, ovvero l'uso di un linguaggio volgare 5.

 

La filosofia del De brevitate vitae

 

Lo stoicismo e l’esilio in Corsica

 

Seneca appartiene allo stoicismo, una dottrina filosofica fondata in età ellenistica da Zenone di Cizio (336/335-263 a.C.) e che raggiunse la sua massima diffusione in età imperiale, contando tra le proprie fila personaggi illustri come l'imperatore Marco Aurelio.

Seneca non è però totalmente aderente allo stoicismo dogmatico e non creerà mai un sistema filosofico compiuto, ed anzi moficherà spesso le proprie opinioni da un'opera all'altra. Se infatti in alcuni dialoghi propende infatti a favore della vita attiva, nel De brevitate vitae traspare quasi una forma di disgusto per quelli che l'autore definisce con disprezzo come occupati, tanto che verso la fine dell'opera Seneca consiglia addirittura a Paolino, detentore di importanti incarichi pubblici, di ritirarsi a vita privata. Il motivo per questo astio nei confronti della vita pubblica doveva essere determinato dal recente ritorno di Seneca dall'esilio in Corsica (49 a.C.), dove il filosofo è stato inviato per l’ostilità di Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Tornando a Roma, il filosofo trova una realtà ben diversa da quella che si era prefigurato durante il suo forzato allontanamento dalla vita pubblica: da qui, probabilmente, il pessimismo radicale nei confronti della classe dirigente romana e del suo stile di vita, che non troviamo in altre opere.

All'interno del De brevitate vitae assume una funzione importantissima la figura del saggio, l'unico capace di usare al meglio il proprio tempo. All'interno dello stoicismo quella del saggio è una figura essenziale, in quanto l'unico capace di adattarsi pienamente al volere della divinità e di accettare il proprio destino usando pienamente la propria ragione e imitando in questo la divinità. In Seneca questa figura diviene tanto elevata e difficile da raggiungere per l’uomo comune che il filosofo decide di inserire una figura intermedia, quella del proficiens, ovvero colui che si è reso conto di quale sia il bene, ha intrapreso la strada per raggiungerlo ma non ha ancora abbastanza forza per arrivare alla meta, né probabilmente l'avrà mai. Lo stesso Seneca afferma di appartenere a questa categoria, ammettendo di non agire sempre nella maniera migliore possibile, ma sapendo cosa sarebbe tenuto a fare 6.

 

Bibliografia

- Lucio Anneo Seneca, Dialoghi vol.1-2, a cura di G. Viansino, Milano, Mondadori, 1988.
- Lucio Anneo Seneca, La brevità della vita, a cura di A. Traina, Milano, Rizzoli, 1993.
- G. Pontiggia - M. C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, vol. III, L'impero, Milano, Principato, 1996.

1 Nel testo viene citato il fatto che Lucio Cornelio Silla fosse stato l'ultimo ad allargare il Pomerio di Roma, cioè il perimetro della città. Dal momento che l'imperatore Claudio fece proprio questo il 24 Gennaio del 50, si può legittimamente pensare che l'opera sia stata composta poco prima di questa data.

2 Nella società romana quella degli equites (cavalieri) era una classe sociale che conteneva al proprio interno quanti avevano interessi economici nel commercio, nelle finanze o nella riscossione delle tasse (i cosiddetti publicani) o comunque in attività non direttamente correlate al possesso della terra, che di solito spettavano ai senatori, possessori di ampi latifondi in tutta Italia.

3 Il tribuno della Plebe Livio Druso, celebre per la giovane età a cui era approdato alla politica, aveva fatto nel 91 a.C. una proposta di legge per concedere la cittadinanza romana agli alleati italici. Il suo brutale assassinio determinò lo scoppio della “guerra sociale” (91-88 a.C.), ovvero una rivolta delle popolazioni italiche che volevano ottenere la cittadinanza romana.

4 Stile e tematiche si riotrveranno molto simili nelle Epistulae morales ad Lucilium.

5 Seneca non era stato il primo a usare come modello la diatriba popolare all'interno della letteratura latina. Già in età augustea Orazio aveva composto i Sermones, che conservavano al proprio interno molte delle caratteristiche della predicazione cinica, compreso l'uso di un linguaggio spesso anche molto volgare.

6 Vedi il De vita beata.