La condanna a morte di Socrate nel 399 a.C., per negazione delle divinità tradizionali e corruzione della gioventù ateniese (in una parola, asebeias, e cioè “empietà”), consegna in un certo senso al mito una figura determinante per tutto il pensiero occidentale. Dato che Socrate non scrisse alcunché in vita, tutto ciò che sappiamo su di lui dipende da fonti secondarie, che vanno dalla commedia di Aristofane Le nuvole (che resta la fonte più antica a nostra disposizione) alla descrizione data dallo storico Senofonte , fino alla testimonianza di Aristotele e, assai più avanti, alle parole di Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi del terzo secolo dopo Cristo. Centrali per ricostruire la figura del maestro ateniese restano tuttavia i testi redatti da Platone, dai celebri Dialoghi fino all’Apologia riguardante il processo vero e proprio, che culminerà nella sentenza capitale.
Punto di partenza del Socrate di tutti i Dialoghi è un’affermazione forte, cruciale per l’immagine che il filosofo vuol dare di se stesso: quella di un ignorante consapevole, che vede in tale condizione il presupposto per qualsiasi vera conoscenza. Nell’Apologia, Socrate arriva a confessare:
"Io non sono stato maestro mai di nessuno; soltanto, se c’è persona che quando parlo, desidera ascoltarmi, sia giovane sia vecchio, non mi sono mai rifiutato; [...] io sono egualmente a disposizione di tutti, poveri e ricchi, chiunque mi interroghi e abbia voglia di stare a sentire quello ch’io gli rispondo”
(Platone, Apologia)
Massima apertura al confronto con gli altri e, al tempo stesso, sincero rifiuto di qualsiasi ruolo di “guida” che lo ponga automaticamente al di sopra del proprio interlocutore: queste le due linee-guida del pensiero socratico, già ben delineate dall’aneddoto (citato appunto da Platone e da Diogene Laerzio) del responso dell’oracolo di Delfi, che dà il via alla carriera del filosofo ateniese. Strumento principe di questa attitudine conoscitiva, è ovviamente il “dialogo”, che Socrate intende - oltre che come strumento di polemica contro la vuota retorica persuasiva dei sofisti - come strumento metodologico fondamentale per giungere alla verità: conoscere se stessi, secondo il motto delfico, è il vero obiettivo di ogni autentica pratica di ragionamento. Due gli strumenti che Socrate utilizza in maniera privilegiata: l’ironia, che gli permette, partendo da una posizioni apparentemente “inferiore”, di smontare dall’interno le convinzioni dell’avversario, e la maieutica, e cioè l’arte della levatrice (quale era ad esempio la madre di Socrate, Fenarete) di far nascere i bambini, come Socrate fa “nascere” la verità dialogando con il proprio interlocutore.
Del primo atteggiamento abbiamo un buon esempio nel dialogo intitolato Eutifrone, dove Socrate, discutendo con l’indovino omonimo, rivela a poco a poco l’insostenibilità della tesi secondo cui le azioni sante sono quelle care agli dei. Ecco come Socrate finge di adeguarsi alla tesi di Eutifrone:
Socrate: “Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensì di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sono sante. Dicevi, mi pare, che per un’idea unica le azioni non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi?
Euitfrone: “Sì, mi ricordo”
Socrate: “E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell’azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è”.
(Platone, Eutifrone)
Ma se per Eutifrone “santo” è “ciò che è caro agli dei”, Socrate ha buon gioco a far ammettere all’indovino che spesso gli stessi dei sono in disaccordo tra loro, così che sia impossibile per noi aver un criterio certo di discernimento. Ancor più importante, per la filosofia socratica, la capacità del filosofo di far “nascere” la verità dagli uomini stessi, conversando con loro. In un celebre passo del Teeteto, è il filosofo stesso a proclamarsi (con assoluta modestia) un abile estrattore della “verità” dall’anima degli uomini:
La mia arte di levatrice poi, in tutto il resto è uguale a quella delle ostetriche, ma se ne differenzia in questo, che agisce sugli uomini e non sulle donne, e assiste le loro anime, quando partoriscono, e non i corpi. E il pregio più grande in questa nostra arte, mettere alla prova, per quanto è possibile in ogni modo, se il pensiero del giovane partorisce immagini o menzogne o invece un qualcosa di fertile e di vero. Poiché anche questo mi appartiene, come alle levatrici: io sono sterile di sapienza, e quello che già molti mi rimproverano è il fatto che interrogo gli altri ma io non rispondo su alcuna questione, per il fatto di non avere alcuna sapienza: e mi rimproverano con verità. La causa di tutto ciò è la seguente, che il dio mi costringe a esercitare la maieutica, ma di partorire me lo impedì. Io dunque, di per me stesso, non sono un sapiente; e nessuna scoperta, che sia tale, è parto del mio animo. Quelli invece che sono abituati a frequentarmi, anche se alcuni di essi sembrano in un primo tempo incolti, tutti, con il protrarsi della frequenza con me, quando il dio lo concede loro, ne traggono un giovamento sorprendente, come sembra a loro stessi e anche agli altri. Ed è manifesto che da me non hanno imparato nulla, ma essi di per se stessi, hanno fatto e creato molte e belle scoperte.
(Platone, Teeteto)
La coerenza di questo atteggiamento, che pone la ricerca della verità e la definizione dell’etica come unica e vera attività dell’uomo, si manifesta proprio durante il processo: rifiutando la fuga per rispettare quelle stesse leggi che lo condannano e il proprio imperativo morale (il daimònion interiore), Socrate accetta la morte consegnando un ritratto ideale di sé: bevuta la cicuta, egli muore conversando con i discepoli, invitandoli un’ultima volta alla serena analisi della propria anima.