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Svevo,"La coscienza di Zeno": "La morte di mio padre"

Nel quarto capitolo della Coscienza di Zeno si affronta uno degli episodi più drammatici e amari della sua vita, la morte di suo padre. Zeno non è mai riuscito ad avere un saldo rapporto affettivo con il genitore, soprattutto dopo la morte della madre. Il difficile rapporto tra i due uomini viene accennato nel capitolo precedente sul fumo: il fumare diventa per Zeno una reazione al suo senso di vuoto e alla mancanza di una figura paterna forte. La morte del padre appare al protagonista un momento decisivo della sua vita e un passaggio a una nuova età e a nuove responsabilità:

 

La morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva piú ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte piú importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era piú una dimane ove collocare il proposito.

Segue poi il lungo racconto sulla malattia e la morte dell’uomo. La vicenda inizia “una sera di fine Marzo”, quando Zeno si reca a cena dal padre e viene avvicinato da una cameriera che lo informa che il genitore ha il respiro affannoso e balbetta. Zeno non si accorge subito della gravità della situazione e sembra invece omettere parti della storia e cercare delle motivazioni per il proprio comportamento, contrapponendo l’incomprensione di quel momento con una consapevolezza tardiva, ripetendo spesso l’espressione: “Capisco ora”. La giustificazione a posteriori del proprio comportamento, tipica del resoconto memoriale che Zeno consegna al dottor S., è così duplice indizio sia della insincerità del protagonista (che non a caso altera alcuni dati del rapporto con la figura opprimente del padre) che della sua incapacità di adeguarsi alla morale vigente, cosa che lo cotringe, di fatto, a simulare una commozione che non prova.

 

Il giorno seguente, dopo cena, la scena si ripete: Zeno viene svegliato dalla cameriera Maria poiché il genitore si lamenta ancora. Il protagonista accorre nella stanza dell’uomo, trovandolo sofferente e impotente. Questa vista spaventa Zeno, il cui dolore viene accompagnato da lacrime che hanno funzione autoassolutoria, perché, come afferma il narratore, “il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obbiezioni, il destino”. Questo pianto suona poi ambiguo con le parole successive: “Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto”. All’arrivo del medico, il dottore Coprosich, Zeno racconta ciò che era accaduto, omettendo alcuni parti della cena del giorno precedente:

 

Avevo parlato anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato. Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse intensamente a qualche cosa che s’aggirava nella sua testa e ch’egli non arrivava a formulare.

Il medico spiega che il padre ha subito un edema cerebrale e non c’è nessuna speranza che sopravviva, ma che potrà riprendere conoscenza. Zeno è spaventato dal fatto che l’uomo possa riacquistare coscienza, e che, risvegliandosi, possa accusarlo di aver voluto la sua morte. Il protagonista domanda al dottore se non si può farlo morire in pace e privo di coscienza, ma l’uomo a quella richiesta si infuria, ampliando il senso di colpa di Zeno:

 

Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora.

La scena finale della "morte del padre" rientra perfettamente in questa casistica, e indica ancor meglio l'inaffidabilità di Zeno quale narratore, e la finzione che sta dietro il suo rimorso e il suo senso di colpa. Il padre, ormai agonizzante, riesce ad alzarsi e a schiaffeggiare il figlio:

 

Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!.

Zeno cerca di imputare la colpa al medico, che voleva obbligare il genitore a stare sdraiato, ma poi si contraddice affermando che “era una bugia”. Ma il senso di colpa viene placato al funerale, quando il protagonista si convince che lo schiaffo non era voluto e che lui era innocente. Zeno si riappacifica, infine, con il padre solo nel momento in cui egli non può più controbattere e spaventare il figlio. Svevo - che prende sempre accuratamente le distanze rispetto al suo personaggi d'invenzione - fa così capire al lettore che per Zeno è possibile accettare la presenza del padre solo quando questi non gli può più nuocere. Esplicita in tal senso la giustificazione, proiettata nel ricordo infantile, di un padre "debole e buono": 

 

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre piú dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il piú debole e lui il piú forte.