Introduzione
Il De tranquillitate animi è un trattato di Lucio Anneo Seneca facente parte di quel gruppo di dodici libri che formano i Dialogi (tra gli altri, ad esempio, il De brevitate vitae, il De vita beata, il De providentia) e che costituiscono, con le Epistulae morales ad Lucilium, il corpus della filosofia senecana.
Unico testo realmente dialogico dei dodici inseriti nei Dialogi - i cui testi non si presentano tanto come dialoghi quanto come trattazioni specifiche in cui Seneca si rivolge di volta in volta a un interlocutore distinto -, il De tranquillitate animi fa parte dell’ideale trilogia dedicata all’amico Sereno 1 completata dal De constantia sapientis e dal De otio, nella quale Seneca si allontana dalle convinzioni epicuree per abbracciare l’etica stoica.
Il De tranquillitate animi, in particolare, affronta la questione della partecipazione del saggio alla vita politica; si tratta di un tema fondamentale non solo nella riflessione senecana (anche a causa delle vicende autobiografiche dell’autore, consigliere di Nerone e infine costretto al suicidio dopo la congiura dei Pisoni 2 del 65 d.C.), ma in buona parte della filosofia romana d’età repubblicana (come ad esempio in Cicerone).
Riassunto e temi fondamentali
Nei primi capitoli del trattato, Seneca risponde alle domande dell’amico Sereno, che si interoga sull’opposizione otium - negotium e su come sia possibile risolvere quel taedium vitae che, nella quotidianità, trascina l’uomo nell’inquietudine e nell’insoddisfazione. Il discorso iniziale di Sereno, ancora incerto tra una vita ripiegata sul privato e il desiderio di azione pubblica, occupa tutto il primo capitolo. Oscillante tra queste due tendenze, Sereno si rivolge al filosofo Seneca ponendogli la questione dell’antitesi tra la vita contemplativa e l'attività mondana. Da qui parte un “dialogo” che metterà in evidenza la differenza sostanziale epicureismo e stoicismo.
Seneca risponde infatti all’amico analizzando le passioni che governano l’animo umano. Secondo lui, gli uomini ricercano la felicità negli impegni mondani, ma questi, per loro initma natura, finiscono col condurre all’allontanamento dalla vita politica in favore della ricerca di uno spazio personale e contemplativo: ansie, pressioni, angosce contribuiscono infatti a far maturare il desiderio di fuga dal mondo (secondo la formula diffusa del lathe biosas, ovvero “vivi nascosto”). L’esempio, nelle prime righe del testo, è quello di Atenodoro di Tarso (74 a.C. - 7 d.C.), che sotto il principato di Augusto, preferì abbandonare gli impegni di corte. Eppure, neanche nel ritiro a vita privata c’è vera pace: l’otium stimolerà sempre il desiderio opposto di tornare alla vita attiva. L’irrealizzazione del desiderio, insomma, è ciò che provoca la frustrazione: l’inerzia e l’invidia per colui che invece riesce a realizzare con successo i propri progetti, sono ciò che porta in ultima analisi al tedio esistenziale 3.
La soluzione a questo stato di dissidio e paralisi interiore per Seneca è quella di partecipare ai doveri sociali secondo la propria indole; coloro che possiedono un animo teso all’azione è giusto che partecipino alla vita pubblica, ma essendo ben consapevoli degli innumerevoli rischi che questa porta. Certo è che lo stato ideale sarebbe il raggiungimento dell’atarassia, ma nella vita quotidiana non è una soluzione possibile. Allora il saggio dovrà rendersi utile ai propri concittadini e, invece di astenersi a priori dalla vita pubblica, cercare di fare la propria parte per il bene comune. L’esempio più rappresentativo è del resto proprio quello di un filosofo: Socrate, anche sotto la tirannia, non si sottrasse al proprio “dovere” di stimolare, attraverso al maieutica, il ragionamento e la riflessione critica dei suoi concittadini.
Le passioni non vanno quindi annullate ma moderate, al fine di indirizzare le proprie energie per un miglioramento della società, in un accordo armonico tra vita attiva e otium meditativo. La “tranquillità” è allora la medicina dell’animo più adatta per districarsi negli affanni della vita attiva e per godere di un otium produttivo e non inerte. A sostegno di questa tesi - che in Seneca media le posizioni di Epicuro e dello stoicismo più intransigente - si portano esempi classici di filosofi, uomini politici e militari di professione: lo stoico Zenone di Cizio (336 ca. - 263 a.C.) che si compiace d’aver perduto le proprie ricchezze in un naufragio; Catone l’Uticense (95-46 a.C.), esempio di virtù repubblicane di fronte al potere; Giulio Cano, messo ingiustamente a morte dall’imperatore Caligola (12-41 a.C.), che si presenta sereno di fronte al boia dopo aver giocato a lungo a scacchi.
La vita del saggio: tra epicureismo e stoicismo
La questione degli influssi filosofici dietro al De tranquillitate animi deve prendere innanzitutto in considerazione l’identità del dedicatario ed interlocutore dell’opera, cioè Anneo Sereno, amico personale di Seneca. Convertitosi dall’epicureismo allo stoicismo, Sereno si interroga sull’opportunità che il saggio partecipi alla vita pubblica, e quindi politica. Le posizioni delle due scuole antiche sono, a tal proposito, quasi diametralmente opposte.
Infatti, secondo la filosofia diEpicuro, il saggio non deve occuparsi di questioni pubbliche, in quanto ogni occupazione civile allontana inevitabilmente il saggio dal lungo percorso verso l’atarassia. Solo se la città verte in una situazione estremamente grave, è lecito che il saggio abbandoni la vita contemplativa per accorrere in soccorso della patria. Gli stoici, invece, assumono una posizione più “pratica”, sottolineando come sia fondamentale che il saggio prenda parte attiva alla vita politica, al fine di essere con il suo operato e le sue azioni di esempio agli altri cittadini.
Seneca, di fronte a questo dissidio, suggerisce una mediazione tra i due estremi, rappresentati da un otium prettamente contemplativo e da quell’impegno a servizio dello Stato che è caratteristico del civis romano. Il comportamento da mantenere dovrà allora, secondo Seneca, essere coerente alla situazione politica, e rivolto sempre al mantenimento della serenità interiore e della capacità di giovare agli altri attraverso l’esempio personale. Seneca si dilunga così in considerazioni di carattere pratico, come la riflessione sull’inquietudine causata da un’eccessiva ricchezza, o a consigli su come riuscire a conseguire quella tranquillitas, che si basa su una buona capacità di coltivare le amiciziee di essere tollerante nei confronti del prossimo. Insomma, la forza morale che consente al saggio di procedere sulla via della virtù è l’unico mezzo per raggiungere l’imperturbabilità necessaria alla serenità interiore. A queste considerazioni non saranno estranee delle circostanze autobiografiche: è infatti probabile che il “dialogo” sia stato composto qualche anno prima del definitivo ritiro dalla vita pubblica. Di conseguenza, non si è ancora manifestata in Seneca la tendenza favorevole all’otium filosofico come dimensione esclusiva per l'attività del filosofo.
1 Anneo Sereno, funzionario della corte di Nerone (37-68 d.C.), si convertì dall’epicureismo alla filosofia stocia, diventando un discepolo di Seneca (con cui forse era imparentato).
2 La morte di Seneca, da cui traspaiono tutti gli insegnamenti dello stoicismo, è ricordata in un passo celebre (XV, 62-64) degli Annales di Tacito.
3 Da questo punto di vista, gli svaghi in cui chi sprofonda nella noia si diletta per distrarsi sono molteplici in ogni punto d’Italia, ma raggiungono il loro apice a Roma, dov’è possibile, con l’accesso ai giochi circensi, godere dello spargimento del sangue di altri uomini.