Introduzione
Ludovico Ariosto compone le Satire a partire dal 1517, anno in cui abbandona il servizio presso il cardinale Ippolito d’Este, e prosegue fino al 1525. Si tratta di sette componimenti in terzine che nascono come una riflessione sull’esperienza personale del poeta. Le Satire partono, quindi, da un dato autobiografico per poi allargarsi ad una riflessione socio-culturale e politica sulla realtà delle corti del Cinquecento, intrecciando osservazioni psicologiche, considerazioni morali e appunti di riflessione che corrono paralleli al lavoro di revisione e di riscrittura dell’Orlando furioso. Ogni satira è indirizzata ad amici e parenti, assumendo quindi una struttura e una funzione quasi epistolare.
Modelli e stile
Diversi sono i modelli letterari di questa raccolta, ma colui che che ha il ruolo principale è sicuramente l’autore latino Orazio (65-27 a.C.), con le Epistole e le Satire. Orazio, noto soprattutto per le Odi, viene recuperato da Ariosto come modello esemplare di medietas e di ironia, ovvero di capacità di affrontare le vicende umane secondo una prospettiva bilanciata tra distacco divertito e reazione ai toni troppo accesi o quelli eccessivamente seri e drammatici. Il modello classico si adatta pure bene alla finzione epistolare, per cui ogni satira, come una sorta di lettera privata ad un amico o a un confidente, è indirizzata ad un particolare destinatario, cui il poeta svela - non senza ironia - la propria visione del mondo. L’altro modello di riferimento, dal punto di vista metrico, è Dante e la sua Commedia; la terzina assicura lo sviluppo narrativo e quasi “colloquiale” dell’epistola, e si adatta assai bene allo stile medio del genere.
Lo stile di Ariosto è medio e molto controllato, non scadendo mai nella polemica, ma mantenendo sempre un tono pacato e leggero, attraverso l’ironia e una notevole vivacità stilistica. Nonostante questo dominio nello stile, emergono tra le righe le dure critiche del poeta alla società e all’ambiente della corte; nella Satira I, in cui Ariosto spiega il suo abbandono del cardinale Ippolito d'Este, per esempio, il poeta esprime le sue considerazioni sul servizio prestato presso l’ecclesiastico, rappresentandolo come un uomo duro, volubile, avaro e insensibile all’arte poetica, che lo ha trattato come un cameriere, sfruttandolo per i compiti più mediocri ed umilianti.
Il livello stilistico trova un suo parallelo strutturale e contenutistico: ogni satira ariostesca parte da un evento autobiografico (spesso semplice e modesto) per poi allargare la riflessione alla morale, ai vizi umani, alla realtà contemporanea, nell’elogio costante di una vita serena ed appartata. Le Satire appaiono allora come un’opera innovativa nel panorama letterario italiano del Cinquecento. Innanzitutto per aver ripreso lo stile di Orazio, le cui Satire non godettero di grande fortuna nel secolo precedente. In secondo luogo per la struttura epistolare e l’utilizzo del dato autobiografico per esprimere considerazioni generali sulla società.
Le tematiche delle Satire
Satira I (1517): Indirizzata ad Alessandro Ariosto, suo fratello e alll’amico Ludovico da Bagno, anch’essi al servizio di Ippolito d’Este. Il poeta spiega, tra il serio e il faceto, i motivi per cui, nonostante le difficoltà economiche, ha rifiutato il trasferimento in Ungheria al seguito del cardinale. Oltre alle scelte personali, spicca soprattutto l’ideale di libertà dell’umanista e dell’uomo rinascimentale, che, alle ambizioni professionali e ai tranelli della vita cortigiana, antepone la ricerca della serenità e la cura della passione letteraria.
Satira II (1517): Rivolgendosi al fratello Galasso, il poeta chiede un modesto alloggio nella città di Roma, dove dovrà recarsi per degli impegni connessi al suo ruolo di ecclesiastico. La contingenza serve per contrapporre la frenesia della vita di città alla pace del locus amoenus di campagna, lontano da falsità ed ipocrisie delle corti dei potenti.
Satira III (1518): il cugino Annibale è il destinatario di una riflessione dell’autore che, partendo dal passaggio alla corte di Alfonso d’Este, sviluppa il tema della libertà e l’amore per la vita domestica. Il ragionamento è esemplificato con due apologhi: prima, un pastore, in un periodo di siccità, fa dissetare la famiglia e gli animali secondo la loro utilità al sostentamento di tutti. Una gazza, simbolo del poeta di corte, rimane per ultima, in quanto la peosia non è ritenuta attività fondamentale a corte 1. Nel secondo, dei valligani vogliono toccare la luna che splende sopra la loro valle, e si dedicano così ad un’inutile scalata. Attraverso questa storiella, Ariosto denuncia ancora la superficialità e la sciocchezza delle ambizioni umane.
Satira IV (1523): Scrivendo al cugino Sigismondo, Ariosto racconta la sua esperienza in Garfagnana, che si presenta difficile sia per la natura ostile del luogo sia per il fenomeno del brigantaggio.
Satira V (1519-1523): Rivolta al cugino Annibale (destinatario anche della terza satira), questa satira tratta del tema del matrimonio, cui il parente si sta appunto accingendo. Il tono è prevalentemente scherzoso.
Satira VI (1524-1525): destinatario dell’epistola è Pietro Bembo, cui il poeta si rivolge in cerca di un maestro di lingua greca per suo figlio Virginio. Il tono però è ironico ed autoironico, in quanto il poeta torna agli anni della giovinezza, e alla scelta di interrompere gli studi per trasformarsi da “poeta” a “cavallaro”.
Satira VII (1524): il destinatario dell’ultima satira è Bonaventura Pistofilo (1470-1543), segretario del duca Alfonso. Ariosto rifiuta cortesemente la proposta di diventare ambasciatore per papa Clemente VII, riconfermando il suo ideale di vita sereno e lontano dalle inquietudini e dai problemi della vita politica e di corte.
1 Pare che dietro il primo apologo si celi papa Leone X, presso cui Ariosto avrebbe potuto trasferirsi.