Il capitolo nono de I Malavoglia riunisce due eventi fondamentali per decidere le sorti dei protagonisti del romanzo verghiano: il fidanzamento di Mena con Brasi Cipolla e la morte di Luca, partito soldato (come prima di lui ‘Ntoni) e caduto nel corso della terza guerra di indipendenza nazionale. Come in altre occasioni in cui al centro della scena ci sono le disgrazie che colpiscono la famiglia, la narrazione è di fatto affidata al punto di vista - mai neutro ed affidabile - della comunità paesana; a ciò si aggiunge il fatto che siamo in una situazione decisiva per l’economia domestica dei Malavoglia, duramente provata dal naufragio della Provvidenza e dalla morte di Bastianazzo. Non a caso, il capitolo si apre con Padron ‘Ntoni che si reca da zio Crocifisso per pagare una rata (l’unica che egli può al momento permettersi) del suo debito nell’affare dei lupini, con cui l’usuraio, attraverso la mediazione di compare Agostino detto Piedipapera, assilla la famiglia:
Piedipapera cominciò a bestemmiare e a buttare il berretto per terra, al solito suo, dicendo che non aveva pane da mangiare, e non poteva aspettare nemmeno sino all’Ascensione.
- Sentite, compare Tino, gli diceva padron ‘Ntoni colle mani giunte come dinanzi al Signore Iddio, se non mi volete aspettare sino a San Giovanni, ora che sto per maritare mia nipote, è meglio che mi diate un colpo di coltello addirittura.
[...] Padron ‘Ntoni tornò a casa ancora pallido, e disse alla nuora - Ce l’ho tirato, ma ho dovuto pregarlo come Dio, - e tremava ancora il poveretto. Però era contento che padron Cipolla non ne sapesse nulla, e il matrimonio della nipote non andasse in fumo.
Il progetto dei Malavoglia prevede allora che Mena vada in sposa a Brasi Cipolla, figlio appunto di don Fortunato, agiato possidente di vigne, terre e di una barca da pesca. Il movente economico confligge ancora una volta con i sentimenti della giovane, che ama il buon Alfio Mena, vicino di casa dei Malavoglia e uomo dai saldi principi morali, ma povero e quindi poco appetibile per un buon matrimonio. Se il narratore concede solo un breve spazio al dramma di Mena (“Ella sola, poveretta, non sembrava allegra come gli altri, e pareva che il cuore le parlasse e le facesse vedere ogni cosa in nero, mentre i campi erano tutti seminati di stelline d’oro e d’argento”), l’atmosfera di festa di tutta Aci Trezza permette di illustrare nel dettaglio la mentalità siciliana, e i i rituali folklorico-tradizionali (come l’invio di una pianta di basilico tra le future comari, simbolo di unità), che accompagnano l’annuncio del fidanzamento dei due giovani:
La Barbara perciò aveva mandato in regalo alla Mena il vaso del basilico, tutto ornato di garofani, e con un bel nastro rosso, che era l’invito di farsi comare; e tutti le facevano festa, a sant’Agata, persino sua madre s’era levato il fazzoletto nero, perché dove ci sono sposi è di malaugurio portare il lutto; e avevano scritto anche a Luca, per dargli la notizia che Mena si maritava.
Alla logica, accettata praticamente da tutti, del matrimonio di convenienza in funzione della “roba” si contrappone però l’evento imprevisto, che sconvolge ancora una volta i progetti di Padron ‘Ntoni. Il narratore popolare riporta infatti, secondo la sua ottica “bassa” e straniante, l’esito infausto della battaglia di Lissa, combattuta al largo delle coste croate il 20 luglio 1866, e che vide la sonora sconfitta della flotta italiana ad opera delle forze austro-ungariche:
Una vecchia andava strillando per la piazza, e si strappava i capelli, quasi le avessero portato la malanuova; e davanti alla bottega di Pizzuto c’era la folla come quando casca un asino sotto il carro, e tutti si affollano a vedere cos’è stato, talché anche le donnicciuole guardavano da lontano colla bocca aperta, senza osare d’ostacolarsi.
[...] In quel crocchio, invece dell’asino caduto, c’erano due soldati di marina, col sacco in spalla e le teste fasciate, che tornavano in congedo. [...] Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi zeppi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontavano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche.
La certezza della morte di Luca arriva solo molti giorni dopo, ma causa il dissesto definitivo delle fortune dei Malavoglia (colpiti ancora, come nel caso di Bastianazzo, da un lutto che proviene dall’esterno del loro microcosmo): il matrimonio di Mena salta e il debito dei lupini torna ad incombere (“Andava a finire che Piedipapera stavolta voleva essere pagato, santo diavolone! San Giovanni era arrivato, e i Malavoglia tornavano a parlare di dare degli acconti, perché non avevano tutti i denari, e speravano di raggranellare la somma alla raccolta delle ulive. Lui se l’era levati di bocca quei soldi, e non aveva pane da mangiare, com’è vero Dio! non poteva campare di vento sino alla raccolta delle ulive”). Il passo successivo, che simbolicamente spezza il nido familiare, sarà la cessione della “casa del nespolo”, nucleo dell’identità dei Malavoglia:
Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e apreva che fosse come andarsene dal paese, e spatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora c’era lì il letto di Luca, e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie, e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno dov’era stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella.