Alessandro Mazzini presenta, attraverso la lettura di passi scelti de I Promessi Sposi, l'atteggiamento fortemente problematico di Manzoni nei confronti della Storia.
I Promessi Sposi si presentano paradossalmente come un
romanzo storico contro la Storia. Un'opera letteraria dove il fondamento storico dà consistenza autentica ai personaggi del racconto, i quali però offrono una prospettiva inedita sulla Storia, che porta ad esprimere un giudizio fortemente negativo su di essa. Fin dalle prime pagine emerge questo atteggiamento critico da parte di Manzoni. Nelle pagine dell'Anonimo viene messo in luce il concetto di Storia, incentrata sempre su principi, re e politici. Ma l'
Anonimo afferma che la storia che racconterà riguarda gente povera, di bassa estrazione sociale,
"genti meccaniche". Eppure la loro vicenda viene presentata come "tragedia": per la prima volta nella letteratura italiana ed europea fatti che riguardano persone umili sono qualificati come degni della stessa considerazione delle azioni dei grandi personaggi.
Il
capitolo dodicesimo de
I Promessi Sposi può essere considerato un esempio della
vanità della Storia. Durante l'
assalto ai forni da parte dei cittadini umili di Milano, l'attenzione del narratore si focalizza su una statua, quella di Filippo II. Manzoni racconta le traversie di questa statua, a cui viene cambiato nome, e successivamente viene abbattuta, mutilata e trascinata per le strade della città. Queste traversie sono emblematiche dell'inconsistenza della Storia e, al tempo stesso, della
prospettiva mistificante che si annida dietro ogni simbolo delle vicende umane, dietro cui si cela sempre una dinamica di
violenza e
oppressione. Questa prospettiva è evidente anche in altri due passi: il primo, nel
capitolo ventotto, nel presentare la figura di
Don Gonzalo, il governatore di Milano, il secondo nel
capitolo trentuno, quando viene presentato il nuovo governatore,
Antonio Spinola. In questi due personaggi si vede davvero il volto della Storia: la preminenza delle
ragioni politico-militari e del
desiderio di potenza sui bisogni del popolo e sulle cure necessarie per un buon governo. Nel capitolo trentadue, in riferimento alla guerra tra
Mantova e
Casale, Manzoni afferma che il cambiamento per cui si era combattuto non era avvenuto. La Storia appare come un inganno, che solo la letteratura rivela.
Alessandro Mazzini è professore di Greco e Latino presso il Liceo Classico Manzoni. Si è laureato in Letteratura Greca con il professore Dario Del Corno presso L'Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con riviste di divulgazione culturale e ha insegnato per 10 anni Lingua e Letteratura Italiana e Lingua e Letteratura Greca presso il Liceo della Scuola Svizzera di Milano. Dal 2001 è ordinario di Italiano e Latino nei Licei e dal 2003 ordinario di Greco e Latino al Liceo Classico.
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I Promessi Sposi manifestano un atteggiamento in larga parte quasi paradossale nei confronti della letteratura, essendo un’opera letteraria che contesta la dimensione letteraria, forzandone e scardinandone tutti i generi. Allo stesso modo anche l’atteggiamento di Manzoni nei confronti della storia si fonda su una specie di paradosso: da questo punto di vista I Promessi Sposi si presentano come un romanzo storico che è contro la storia, un romanzo storico dove il fondamento storico dà consistenza autentica ai personaggi della storia dell’invenzione, i quali però offrono una prospettiva inedita sulla storia e così, implicitamente, guidano a esprimere un giudizio fortemente negativo sulla storia.
Si tratta di uno degli aspetti di innovazione poetica più forti del romanzo di Manzoni, che in effetti è messo in luce fin dall’inizio, proprio nelle pagine presentate come le pagine dell’Anonimo, del manoscritto dell’Anonimo. In realtà queste pagine, che nella versione definitiva sono scritte con una mimesi dello stile secentesco, contengono una vera e propria dichiarazione di poetica, come ha osservato un grande studioso come Giorgio Barberi Squarotti. In questa parte, infatti, viene messo in evidenza che la storia è una lotta illustre contro il tempo che recupera gli anni già fatti cadaveri, li passa in rassegna e li schiera in battaglia; tuttavia, come osserva l’Anonimo, l’attività della storia, o meglio della storiografia, si è sempre concentrata solo sui prìncipi, sui potentati e sui qualificati personaggi mentre l’Anonimo osserva quanto segue:
Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche.
In effetti qui Anonimo riconosce che la sua storia riguarderà “genti meccaniche”, sostanzialmente gente che lavora, e “gente di piccol affare”, cioè gente comune, ignorante, di basso livello sociale e quasi di nessun livello culturale, secondo la tradizione convenzionale di cultura, contrapponendosi in questo senso alla prospettiva della Storia. Tuttavia sono comunque protagonisti di una vicenda che viene qualificata come tragedia. Parla infatti di “traggedie d’horrori e scene di malvaggità grandiosa”: per la prima volta nella nostra letteratura e in quella europea, vicende che riguardano personaggi umili sono qualificate come degne della stessa considerazione valoriale e dello stesso profondo significato delle azioni dei grandi personaggi; il racconto di una storia che si pone agli antipodi della storia con la “s” maiuscola (Storia) e che quindi offre la possibilità di uno sguardo straniante, di uno sguardo nuovo, lo sguardo di una storia vista dal basso e che implica un giudizio implicito nelle vicende dei personaggi, ma spesso esplicito dal punto di vista degli interventi, dei commenti del narratore. In effetti, molteplici sono le pagine in cui Manzoni si muove contro quella che tradizionalmente è considerata la storia e contro i valori eroici ed eccezionali che la storia veicola, mettendo spesso in luce la vanità della storia e della sua fama. Tra i molteplici passi che si possono prendere in considerazione, vale la pena partire da un passo che si trova nel capitolo XXII, nel momento esatto in cui l’attenzione del narratore si focalizza su una statua: siamo nel contesto dell’assalto ai forni; dopo la presa del forno, la massa (il “popolaccio”, come lo chiama Manzoni che ha una prerogativa sempre diffidente nei confronti dei movimenti di massa) si avvia verso la casa dei vicari di provvisione e, compiendo il tragitto, passa davanti a una statua che rappresenta Filippo II. Proprio su questa statura Manzoni osserva:
E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell'edifizio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia. Quella statua non c'è più, per un caso singolare. Circa cento settant'anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d'anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l'avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Le traversie di questa statua sono emblematiche dell’inconsistenza e della vanità della storia. Quella statua doveva rappresentare Filippo II, il sovrano che potentissimo dominava sul milanese; in realtà ben presto assume i tratti di Marco Bruto, uno dei tirannicidi per definizione, venendo a significare l’ideale esattamente opposto all’assolutismo monarchico. Dopo qualche tempo, Manzoni allude alle vicende legate alla cacciata dei francesi nel 1699, quella statua che rappresentava Marco Bruto viene abbattuta e scompare. È quindi significativo che quella statua, che doveva essere l’emblema del potere, assuma varie vesti fino a scomparire senza lasciare traccia di sé. In realtà la storia è portatrice di una prospettiva mistificante e falsificante per Manzoni soprattutto quando si presenta come la perpetuazione di fame che nasconde in realtà una dinamica di oppressione e di violenza dominante nella vicenda storica. Questa prospettiva è evidente in altri due passi: uno in cui si affronta la figura di Don Gonzalo, governatore di Milano, e quello del suo successore Ambrogio Spinola. Per quanto riguarda Don Gonzalo, nel capitolo XXVIII, a proposito della sua figura viene preso in considerazione il suo atteggiamento nei confronti degli avvisi in merito al pericolo della diffusione della peste al passaggio dei Lanzichenecchi, mentre il governatore è impegnato nelle vicende della guerra legata alla successione di Mantova e Casale. Osserva Manzoni:
Di tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d'acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l'atto di lui piú degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza [cioè il medico che aveva mandato gli avvisi in merito alla peste al governatore] Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era mosso quell'esercito, pesavan piú che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza.
Le ragioni della politica, della potenza, non prendono quindi in considerazione la difesa e la tutela di quel popolo che teoricamente Don Gonzalo avrebbe dovuto governare e tutelare. Un grande della storia si rivela per una persona che perseguendo gli obiettivi politici è pronta a mettere a repentaglio la vita, come in effetti sarà, di migliaia e migliaia di persone. Questo, afferma con chiarezza Manzoni, è il volto della storia. E non è un caso che a proposito del successore di Don Gonzalo, cioè Ambrogio Spinola, i toni di Manzoni si facciano ancora più duri e ancora più espliciti. Parlando infatti del successore di Don Gonzalo, nel capitolo XXXI afferma:
Era quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra [La solita guerra per Mantova e il Casale] e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare[Quello che dovrebbe essere la cura prioritaria, in realtà è la conseguenza di un altro obiettivo che risponde alle esigenze di potenza presenti nella storia]; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morí dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morí, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva.
La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Qui il linguaggio di Manzoni è estremamente duro: che cosa ha salvato, che cosa ha salvaguardato la storia? Le qualità politiche di Ambrogio Spinola, quelle grandi qualità politiche che si fondono fondamentalmente su un fraintendimento perché in realtà quella che avrebbe dovuto essere la sua cura più importante, cioè proteggere la popolazione proprio come Don Gonzalo, in realtà è stata completamente omessa da lui. La popolazione era in sua balia e di questo paga le conseguenze. A conclusione di questa breve rassegna non si può non far riferimento a un passo in cui è evidente l’inconsistenza della storia e della tradizione che essa tramanda. Nel capitolo XXXII, ancora in riferimento alla guerra per il Ducato di Mantova e per Casale, Manzoni dice:
La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de' soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s'è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa.
Questo è il volto della storia: i morti che questa guerra ha comportato e gli altri morti che, per dedicarsi a questa guerra, sono stati determinati dalla trascuratezza nei confronti della peste, che cosa hanno prodotto alla fine? Le cose per modificare le quali la guerra è iniziata, alla fine della guerra rimangono inalterate. Manzoni dice che la storia è un inganno, un inganno che la letteratura vi svela.