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"I promessi sposi", capitoli 11-13: riassunto e commento

Introduzione

 

I capitoli dei Promessi sposi che vanno dall’XI al XIII hanno come sfondo narrativo i tumulti di Milano scatenati dalla protesta per il pane, cui Renzo, giunto in città per allontanarsi da don Rodrigo, partecipa involontariamente.

 

Capitolo XI: Don Rodrigo e Renzo

 

Il capitolo XI si apre con un’analessi (detta anche flashback) che riporta il lettore alla notte degli imbrogli in cui i “bravi” tentano di rapire Lucia. Don Rodrigo, inquieto in attesa della giovane, oscilla tra la valutazione delle possibili conseguenze della scoperta della sua impresa criminosa, “la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano” 1 e il desiderio d’avere con sé Lucia. Il nobile si consola però rispondendosi che la bassa estrazione sociale delle sue vittime le renderà sicuramente indifferenti all’interesse del podestà del villaggio, anche nel caso di una fuga di notizie. Il suo sopruso contro “gente di nessuno [...] perduta sulla terra” 2 è quindi destinato, nella sua prospettiva, a passare in secondo piano rispetto alle leggi dell’onore e del rispetto della sua casata (o della “scommessa” fatto col cugino Attilio).
Quando allora Don Rodrigo vede tornare il Griso senza la preda ambita, si lascia andare ad una considerazione canzonatoria nei confronti del suo sottoposto: 

Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, “ebbene,” gli disse o gli gridò: “signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?" 3

Don Rodrigo decide quindi di spedire nuovamente il Griso al villaggio per comprendere cosa sia successo e chi abbia aiutato Renzo e Lucia a scampare il rapimento. Il colpevole è ovviamente fra Cristoforo, e il Griso riporta al suo padrone la notizia che Lucia è diretta a Monza, mentre Renzo è in viaggio per Milano. Don Rodrigo lo incarica quindi di correre immediatamente a Monza, e medita di liberarsi definitivamente di Renzo con qualche falsa accusa nei suoi confronti. Ad allontanare il frate cappuccino provvederà invece il conte zio, come promesso da Attilio e come vedremo nel capitolo 19 del romanzo.

A questo punto il narratore sposta la sua attenzione su Renzo che, sulla via di Milano, è ancora combattuto tra il desiderio di vendetta e la volontà di obbedire ai buoni propositi fatti a fra Cristoforo al momento della separazione da Lucia 4. Renzo tuttavia non sa che quello “era un giorno fuori dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti” 5: anzi il giovane, ingenuamente, crede che la farina che vede sulle strade (“certe strisce bianche e soffici, come di neve” 6) sia un segno dell’abbondanza in cui vivono gli abitanti di Milano, tanto da cominciare a raccogliere qui e là alcuni pani sfuggiti alla razzia. Solo in seguito Renzo capisce di essere nel bel mezzo di un tumulto e, scorgendo una famiglia che tornava a casa carica del bottino del saccheggio di un forno, prova un sentimento di condivisione e approvazione:

Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo 7.

Pur deciso in un primo momento ad attenersi alle istruzioni di fra Cristoforo e ad attendere quindi fra Bonaventura al convento, Renzo si fa vincere dalla curiosità e si dirige, “sbocconcellando” 8 il suo pane, verso il tumulto. Si apre qui la descrizione del tumulti di San Martino dell’11 novembre 1628.

 

Capitolo XII: le ragioni del tumulto e il ruolo della folla

 

Il capitolo XII dei Promessi sposi è di impostazione storiografica, in quanto il narratore si concentra, più che sulla narrazione dei fatti romanzeschi, sulla descrizione, il più oggettiva possibile, delle cause profonde e scatenanti della protesta popolare. Tra queste, le principali sono la scarsità del raccolto dell’estate precedente e il conseguente rincaro del grano, aggravato dai costi della guerra e dell’assedio alla fortezza di Casale 9 e dall’innalzamento delle tasse.

Manzoni, oltre a sottolineare il degenerare della protesta popolare, non tralascia le responsabilità del potere politico: il cancelliere Ferre è indicato come colui che, per assecondare i tumulti, abbassa il prezzo politico del pane, mettendo in difficoltà i fornai di tutta la città. Il successivo rialzo del pane, sempre dettato da decisioni politiche, scatena la folla, che prima assalta i portatori delle gerle e poi direttamente i forni, saccheggiati e distrutti:

La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito 10.

Renzo capita in questa situazione sull’orlo della rivolta popolare; anche l’intervento del capitano di giustizia si rivela del tutto inefficace, dato che le sue parole (che invitano paternalisticamente alla calma) vengono interrotta da una sassata che lo colpisce in testa 11. La protesta violenta, tra piazza Cordusio e via dei Mercanti, lascia al narratore (e a Renzo stesso) un disincantato commento, mentre la folla distrugge e dà fuoco agli strumenti di lavoro dei forni: 

Veramente, la distruzion de' frulloni e delle madie, la devastazion de' forni, e lo scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva 12.

 

Capitolo XIII: l’assalto della folla e l’arrivo di Ferrer

 

Il capitolo XIII si apre dunque con l’assalto alla dimora del vicario di provvigione, nell’intento della folla di farsi giustizia da sola. Renzo, che finora ha seguito gli eventi da spettatore passivo (e, inizialmente, meraviglaito), diventa un protagonista degli eventi della giornata. La folla, che si sta assiepando attorno all’abitazione del vicario Lodovico Melzi d’Eril (1594-1649), desidera sfogare la propria rabbia su colui che è considerato l’affamatore del popolo 13

A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi 14.

Renzo, nel suo tentativo di difendere il vicario secondo i precetti più spontanei della sua fede semplice e sincera (“«Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!»” 15, che - come dice Manzoni stesso - “veniva a spendere bene una popolarità male acquisita” 16. Il cancelliere è abilissimo nell’arringare la folla, fingendo di assecondarne i desideri, e Renzo, istintivamente, identifica in lui il più autentico rappresentante della giustizia. Il narratore manzoniano, però, assistendo alla sommossa, non può che lasciarsi andare ad una considerazione amara sul comportamento irresponsabile degli uomini e delle masse:

Ne' tumulti popolari c'è sempre un certo numero d'uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio" 17 

Il capitolo si chiude con l’immagine del vicario terrorizzato tratto in salvo da Ferrer, senza che si sappia veramente quali saranno le sue sorti:

Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi 18.

1 A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Milano, Principato, 1988, p. 245.

2 Ivi, pp. 245-246.

3 Ivi, p. 246.

4 Ivi, p. 257: “Quando si tratteneva col pensiero sull'una o sull'altra di queste cose, s'ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un'immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte”.

5 Ivi, p. 259. L’autore utilizza qui una metonimia per indicare che i nobili (le “cappe”, cioè i mantelli con cappuccio e senza maniche tipici delle classi elevate), nel giorno dei tumulti per il pane, sono costretti a piegarsi al volere dei “farsetti” (le giubbe senza maniche, tipiche dell’abbigliamento delle classi popolari).

6 Ivi, p. 260.

7 Ivi, pp. 262-263.

8 Ivi, p. 264.

9 L’episodio si inscrive nella cosiddetta “guerra di successione di Mantova e del Monferrato” che opponeva Francia e Spagna nel contesto della guerra dei Trent’anni.

10 A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 273.

11 Ivi, p. 277: “«Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!». Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica”. Il commento di Manzoni (“profondità metafisica”, secondo le convenzioni della medicina dell’epoca) è naturalmente ironico.

12 Ivi, p. 282.

13 Manzoni sintetizza la rabbia cieca della folla nell’immagine di un vecchio: “Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse” (ivi, p. 291).

14 Ivi, p. 289.

15 Ivi, p. 291.[]/fn]), viene scambiato per un agente governativo dalla folla inferocita, e può salvarsi solo sfruttando il caos per l’arrivo di una scala, da usare per penetrare nell’abitazione del vicario.

L’arrivo del cancelliere Ferrer[fn]Il cancelliere Ferrer è il rappresentante a Milano del potere spagnolo, stante l’assenza del governatore don Gonzalo de Cordoba (1585-1635), impegnato nelle manovre militari nel ducato di Mantova e del Monferrato.

16 Ivi, p. 293.

17 Ivi, p. 293. Dietro questo considerazione ci sarebbe un doloroso fatto autobiografico, e cioè l’aver assistito al linciaggio del 20 aprile 1814 di Giuseppe Prina, ex ministro delle Finanze del Regno d’Italia, dopo la caduta dell’impero di Napoleone e il ritorno degli austriaci in città. L’episodio è citato in una lettera a Claude Fauriel del 24 aprile di quell’anno.

18 Ivi, p. 304.