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Alessandro Manzoni: epistolario e poetica
La complessità e l’inquietudine della personalità di Manzoni si possono illustrare agevolmente prendendo spunto da tre lettere che il Manzoni scrive a distanza di tempo: una nel 1814 a Claude Fauriel, l’altra nel 1848 a Giorgio Briano, un giornalista, ed una che risale al 1860, scritta ad Emilio Broglio. Queste tre lettere sono utili proprio per mettere in luce il problematico modo di relazionarsi di Manzoni con la realtà politica, che si può considerare come un esempio globale della complessità con cui Manzoni si relazionò nei confronti della realtà e delle problematiche propriamente concrete del quotidiano. Nella lettera del 1814 indirizzata a Claude Fauriel, Manzoni relaziona l’amico sugli eventi che erano successi in quell’anno, proprio a Milano, a seguito della caduta del regime Napoleonico, che avevano portato ad una sollevazione popolare che aveva comportato l’uccisione del ministro delle finanze dell’epoca, e cioè Giuseppe Prina. In questa lettera a Claude Fauriel appunto, del 24 aprile, Manzoni, che pur partecipava con interesse alle dinamiche politiche ed anche ai moti popolari che agitavano quegli anni, è sgomento davanti al comportamento della massa e mostra una inquietudine ed un’angoscia che saranno le stesse che ritroveremo nei Promessi Sposi, quando ritroveremo l’assalto alla casa del vicario di provvisione. Una frase in questo senso è particolarmente significativa: “sapete d’altronde che il popolo è dappertutto un buon giurato ed un cattivo giudice”. Qui Manzoni evidenzia un certo riserbo, anche aristocrtico se vogliamo, nei confronti dei comportamenti irrazionali della massa, che anche quando è animata da istanze di giustizia, come in questo caso la protesta nei confronti del Prina, va assolutamente censurata, quando si lascia prendere dalle passioni, che sono passioni che possono portare ad atti esecrandi. Questo atteggiamento problematico lo si ritrova in una lettera indirizzata a Giorgio Briano quando Manzoni era stato eletto al Parlamento subalpino. Manzoni rifiuta la nomina, dicendo di se stesso quanto segue, per giustificare appunto le ragioni del suo rifiuto, osserva:
Per non toccarne che una, ma essenzialissima, quel senso pratico dell’opportunità, quel saper discernere il punto o un punto dove il desiderabile si incontri col riuscibile e attenercisi, sacrificando il primo con rassegnazione, non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario, salvo il diritto s’intende, è un dono che mi manca a un segno singolare.
Manzoni riconosce di non essere in grado di conciliare ciò che è fattibile, appunto il riuscibile, con ciò che è desiderabile e cioè con quel mondo dei valori, quel piano dei valori che fin dalle origini, come vedremo a suo tempo, ha angosciato Manzoni, nel momento in cui questo piano dei valori doveva tradursi nel piano della concretezza, nel piano della realtà. Poco più avanti in questa lettera si definisce un utopista ed un irrisoluto, e su queste due attribuzioni, osserva Manzoni ,“sono due soggetti inutili perlomeno in una riunione, dove si parli per concludere, io sarei l’uno e l’altro nello stesso tempo.Aggiunge poi:
il fattibile più volte non mi piace, anzi mi ripugna. Ciò che mi piace, non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri, ma sgomenterebbe me medesimo quando si trattasse, non di vagheggiarlo o di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto ed aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze.
Manzoni qui chiaramente mostra la sua insoddisfazione nei confronti del reale, una insoddisfazione che gli determina un senso di angoscia, nel momento in cui a fronte del “fattibile” bisogna poi entrare in contatto con ciò che invece sarebbe “auspicabile” con il mondo dei valori. Il “fattibile” non gli piace e però non sa come conciliarlo con il mondo del “dover essere”, come infatti si esprimerà in un’altra lettera che a suo tempo considereremo. In conclusione "è una cosa dolorosa e mortificante trovarsi inutile ad una causa che è stata sospiro di tutta una vita, ma ipse fecit nos et non ipsi nos, e non ci chiederà conto dell’omissione se non nelle cose alle quali ci ha data attitudine". Manzoni riconosce che la causa politica dell’Italia è causa che gli è sempre stata a cuore per tutta la vita, ma si considererà anche inutile ed inetto per affrontarla. Un atteggiamento per molti aspetti analogo lo si vede nel terzo brano che volevo considerare, cioè la lettera ad Emilio Broglio, quando Manzoni viene eletto al Senato. In principio pensa di rinunciare, anche se si rende conto che questo sarebbe un atto disdicevole, e parlando delle motivazioni per cui si sentirebbe inadeguato al ruolo, riconosce che
perfino il rimanere in una sala dove siano radunate 40- 50 persone parrà una caricatura, ma non c’è verso, l’è un’impresa superiore alle mie forse. Tanto è vero che spesso mi accade andando alla domenica a messa, quando ci sia un po’ di gente in Chiesa, di non potermi superare e di doverne uscire senz’altro.
E poco sopra: “di parlare in Senato non è nemmeno il caso di pensarci, giacchè sono balbuziente.” La nevrosi di Manzoni si esprimeva soprattutto in una paura dei luoghi aperti ed in una serie di atteggiamenti nevrotici, come appunto la balbuzie che rendeva problematico il confronto quotidiano con gli altri.