Le intenzioni di Manzoni nel comporre gli Inni sacri erano di “ricondurre alla religione quei sentimenti grandi, nobili ed umani che naturalmente da essa derivano”, come scriveva in una lettera all’amico Fauriel del 25 marzo 1816. Dunque, da questa prospettiva, si coglie immediatamente che l’orizzonte ideologico in cui si colloca il progetto degli Inni è identico a quello che porterà alle Osservazioni sulla morale Cattolica: la volontà cioè di soffermarsi sull’aspetto morale e umanitario della fede cristiana, intesa come autentica rivelazione dell’uomo all’uomo, in virtù della quale essa completa ed attua fino in fondo l’autentica natura umana, poiché il Vangelo, nell’ottica manzoniana, contiene e spiega tutto ciò che, in modo vario ed anche contraddittorio, qualifica la condizione umana e la sua presenza nella storia. Poiché tutto questo è possibile, ritiene Manzoni, anche in conseguenza del fatto che la fede Cristiana si fonda su eventi storici che non sono avvenuti una volta per tutte, ma nel rito proposto dalla Chiesa continuano ad avvenire e nei giorni quotidiani ricapitolano la storia umana in un ciclo assoluto che si concretizza ogni volta, perennemente, e sempre, ne consegue per Manzoni la necessità di cogliere nei dati della realtà i simboli che rimandano alla trama eterna tracciata dalle Solennità della Chiesa. Di qui la necessità di uno strumento espressivo nuovo, un’espressività lirica che sia in grado di condensare l’assoluto e il contingente, che faccia cioè percepire e cogliere attraverso il linguaggio dei simboli quell’assoluto-concreto che avviene sempre ed è perennemente presente, e che è costituito dal piano divino e dalla Storia Sacra che lo ha rivelato una volta per tutte. Occorre cioè che la parola poetica sia in grado di svelare, attraverso i mezzi propri, l’aspetto profondo, la significazione etica di cui la prospettiva religiosa investe le cose. Ecco perché l’io della tradizione lirica deve dissolversi in un noi, cioè in una comunità inter-soggettiva che, in quanto tale, permetta una identificazione e un’assimilazione degli individui in quella oggettività universale ed assoluta che adempie la vera natura del singolo e lo libera dalle strettoie di una soggettività che, se posta al centro del discorso, non può che vedere solo se stessa riflessa nelle cose, mentre si tratta di lasciare che il piano del mistero e dell’assoluto parli attraverso le cose e queste riflettano il soggetto nella sua autenticità.
È da queste premesse che nasce la novità della ricerca espressiva presente negli Inni sacri; una novità che innanzitutto rinuncia all’espressività vaga ed armonica propria della tradizione petrarchista, priva di asprezze e dissonanze sia nelle forme che nei contenuti. In virtù di tale tradizione infatti il dettato lirico si basava su di un andamento sfumato, con termini che ricercavano simmetrie e bilanciamenti sia sotto l’aspetto ritmico e metrico, sia sotto l’aspetto delle scelte lessicali che adottavano termini tendenzialmente generici, mai specifici, e che si disponevano, generalmente, in dittologie sinonimiche che concorrevano a costruire quell’andamento armonico, idealizzante, equilibrato che diventò la cifra espressiva del linguaggio lirico italiano. Nucleo tematico di questo tipo stile era un “io” lirico, letterariamente atteggiato e lontanamente autobiografico; una sorta di “personaggio” funzionale ad una biografia appunto lirica, cioè costruita secondo presupposti culturali specifici, come il Canzoniere di Petrarca aveva mostrato in modo paradigmatico.
È sufficiente invece una ricognizione a campione per comprendere come tutto questo muti negli Inni sacri che offrono un esempio di lirica argomentativa lontana sia dall’idealizzazione sia dall’effusione autoreferenziale di sentimenti e dallo stile che esprimeva entrambe.