Lettura e analisi del sonetto "Solo e pensoso i più deserti campi" di Francesco Petrarca, a cura di Andrea Cortellessa.
"Solo e pensoso i più deserti campi" è il sonetto XXXV del "Canzoniere", uno dei più celebri e forse uno dei primi ad essere composti.
In questo componimento il soggetto d'amore si presenta, secondo un topos poetico classico, come solitario. La dimensione della solitudine e del disprezzo della compagnia altrui viene fissata e canonizzata nella letteratura italiana da questo sonetto. L'identità amorosa maschile occidentale si modella sul soggetto amoroso di questo sonetto in particolare: il soggetto si proietta nel paesaggio, che diventa uno schermo della solitudine, della ricerca di questa e del viaggio solitario in luoghi incontaminati dall'impronta umana ("dove vestigio uman l'arena stampi"). La solitudine diventa anche oggetto di riflessione in un'altra opera petrarchesca, il "De vita solitaria", che riguarda il rapporto tra vita cittadina e vita in campagna, che è una vita ritirata e riparata. Petrarca inventa il paesaggio moderno in quanto specchio dell'anima, in cui si proiettano le delusioni e le sensazioni del soggetto. Ogni elemento è animato e ispirato dalle proiezioni soggettive del poeta.
Al verso 12 si può trovare un richiamo alla tradizione dantesca precedente, in particolare sembra Petrarca sembra riallacciarsi alle "Rime petrose" di Dante con l'aggettivo "aspre" ("sì aspre vie nè sì selvagge"), che si ritrova anche nel primo verso del componimento più famoso delle "Rime petrose", "Così nel mio parlar voglio esser aspro".
Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all'Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa-Tuttolibri.
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Petrarca, "Solo e pensoso i più deserti campi": analisi e commento
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