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“Carpe diem” di Orazio: traduzione, metrica e commento

Introduzione

 

Il componimento, l’undicesimo del primo libro delle Odi ed uno dei più celebri dell’intera letteratura latina, si presenta come un breve ma profondo avvertimento del poeta alla fanciulla Leuconoe sulla natura della vita secondo i precetti della morale epicurea e della teoria del piacere: è meglio vivere l’attimo piuttosto che interrogarsi inutilmente sul destino che ci attende. Il carpe diem assume così la formula di un frammento di dialogo con la tenera ed un po’ ingenua ragazza 1, che ritiene di poter vedere “con mente chiara” nel futuro che attende lei e il poeta.

Il consiglio di Orazio è invece quello di abbandonare le illusioni e di prestare attenzione a “staccare” un attimo dell’eterno fluire del tempo; i precetti della morale epicurea si traducono, più che in un superficiale invito al piacere fisico, in un’oculata etica della rinuncia: per raggiungere l’autárkeia epicurea e il “piacere negativo” occorre rinunciare a ciò che ci allontana dalla aurea mediocritas dellos tile di vita oraziano, a metà strada tra sapienza filosofica e disincantata ironia.

Dal punto di vista stilistico, la “morale” del testo si compone grazie alle tecniche della brevitas: periodi concisi ed inseriti in una struttura semplice, ma scanditi dal ritmo dell’asclepiadeo maggiore, che pone in rilievo al centro di alcuni versi le “massime” filosofiche che Leuconoe dovrebbe seguire (ad esempio, v. 1: “scire nefas”; v. 6 “vina liques”). Il breve testo è poi movimentato dal ricorso a parallelismi (v. 1: “quem mihi, quem tibi”; v. 4: “seu [...] seu”; vv. 6-7: “sapias [...] liques [...] reseces”) e a frequenti enjambements (vv. 1-2, 2-3, 5-6, 7-8).

Il messaggio profondo del testo che emerge negli ultimi versi - come in chiusura di una riflessione esistenziale amara ma non rassegnata - sembra quello di una consapevole ascesi per conquistare la felicità: forse conviene dimenticarsi, alemo per un giorno, del dolore del mondo e della morte che ci separerà dagli affetti più cari.

Metro: asclepiadeo maggiore.

  1. 2 ne quaèsierìs 3, scìre nefàs 4, quèm mihi, quèm tibi
  2. fìnem dì dederìnt, Lèuconoè 5, nèc Babylònios
  3. tèmptarìs numeròs 6. Ùt 7 meliùs, quìdquid erìt, pati,
  4. sèu plùris 8 hiemès sèu tribuìt 9 Iùppiter ùltimam,
  5. quaè nunc òppositìs dèbilitàt pùmicibùs 10 mare
  6. Tyrrhenùm: sapiàs 11, vìna liquès 12 èt spatiò brevi
  7. spèm longàm resecès. Dùm loquimùr, fùgerit ìnvida
  8. aètas 13: càrpe 14 dièm, quàm minimùm crèdula pòstero 15.
  1. Non domandare, Leuconoe - non è dato sapere - che
  2. destino gli dei hanno assegnato a me e a te, né consulta
  3. gli oroscopi. Com’è meglio tollerare ciò che sarà, sia che Giove
  4. ci abbia dato ancora tanti inverni sia che questo, che sfianca
  5. il mar Tirreno con rocce di pomice, sia l’ultimo: sii assennata,
  6. purifica il vino e recidi la  duratura speranza, ché la vita è breve.
  7. Mentre parliamo, se ne va il tempo geloso:
  8. strappa l’attimo, e non fidarti per nulla del domani.

1 Non viene comunque meno l’atmosfera di affettuosa complicità tra il poeta e Leuconoe: la giovane, interrogando i “Babylonios numeros”, antepone il destino del poeta al proprio.

2 Tu: il pronome personale, posto in posizione rilevata di incipit, dà il senso di una conversazione in corso di svolgimento tra il poeta, maturo e disilluso, e la giovane Leuconoe, cui si spiega con affetto che non è il caso di interrogarsi su ciò che accadrà in futuro.

3 ne quaesiris: il verbo (da quaero, quaeris, quaesii, quaesitum, quaerere) è il primo dei divieti o dei consigli (vv. 2-3: “nec Babylonios temptaris numeros”; v. 6: “sapias, vina liques”; v. 8: “carpe diem”) che Orazio indirizza alla fanciulla, come se volesse ammonirla sugli errori più comuni dei mortali; l’indicazione non è quella di godere in maniera irriflessa dei piaceri della vita, ma piuttosto quella a raggiungere un piacere negativo, determinato dall’assenza del dolore e della sofferenza, come insegnato dal maestro Epicuro.

4 scire nefas: l’inciso del discorso è costituito da una formula sacrale, solitamente utilizzata per indicare quei saperi e quelle conoscenze precluse alla curiosità degli uomini.

5 Leuconoe: nome di origine greca, che indica probabilmente una figura di invenzione; si tratta di un “nome parlante”, da leukós, “bianco, candido”, e nous, “mente, intelletto”. Leuconoe è quindi l’immagine di una fanciulla dalla mente candida e pura, che si illude di poter conoscere in anticipo quale sarà il destino suo e del poeta.

6 Babylonios temptaris numeros: l’espressione (temptaris è forma sincopata per il congiuntivo esortativo temptaveris da tempto, temptas, temptavi, temptatum, temptare) si ricollega all’usanza, diffusa soprattutto a livello popolare, di consultare gli astrologhi di origine babilonese o caldea per conoscere il proprio futuro. Il sostantivo numerus, -i, al plurale, significa appunto, tra le altre cose, “astrologia”. Ovvio lo scetticismo di Orazio nei confronti di queste superstizioni.

7 Ut: l’avverbio ha valore esclamativo, e introduce le indicazioni del poeta ai vv. 6-8.

8 pluris: forma per plures, concordata con “hiemes”.

9 tribuit: verbo al perfetto da tribuo, tribuis, tribui, tributum, tribuere, “accordare, concedere, assegnare”.

10 pumicibus: il termine, da pumex, -icis, indica tecnicamente la pietra pomice e in particolare quelle rocce marine levigate e rese porose dall’azione corrosiva degli agenti marini. Si noti l’abilità con cui Orazio sintetizza in un dato spaziale (il mare Tirreno d’inverno, tormentato ed infastidito dagli scogli) la condizione esistenziale del trascorrere indolente del tempo dei giorni della nostra esistenza, come le onde sugli scogli.

11 sapias: il verbo, da sapio, is, sapii, sapire, “aver sapore, essere saggio, essere prudente”, è un congiuntivo esortativo (come i seguenti “liques”, v. 6, “reseces”, v. 7, e “carpe”, v. 8) apre la serie di inviti a Leuconoe per una più serena legge esistenziale: gustare piccole gioie, come il vino purificato e filtrato, non illudersi con grandi speranze, strappare alla vita che va quel poco di felicità possibile. Si tratta di precetti chiaramente riconducibili alla teoria del piacere di Epicuro.

12 liques: il verbo, da liquo, liquas, liquavi, liquatum, liquare, “filtrare, purificare”, indica l’operazione tecnica di schiarimento del vino facendolo colare per un panno di stoffa o per un filtro metallico colmato di neve. Orazio, in maniera ironica, affianca questa pratica al nome di Leuconoe (appunto, “colei che ha una mente chiara e candida”), alludendo al fatto che è meglio occuparsi della depurazione del vino piuttosto che interrogarsi su ciò che non si può conoscere.

13 invida aetas: nel termine è implicita una contrapposizione assai significativa con tempus; se quest’ultimo individua il tempo suddiviso in parti ed intervalli (come le ore o i momenti del giorno, insomma), aetas si riferisce al tempo nella sua continuità ininterrotta (come nel caso dei periodi della vita). Il “tempo” che fugge è cioè quello che riguarda la nostra intera vita.

14 carpe: il verbo, da carpo, carpis, carpsi, carptum, carpere, “staccare, strappare, smembrare”, ha una connotazione semantica assai forte e netta, da collegare alla difficile possibilità di strappare dal flusso ininterrotto degli eventi un piccolo attimo di pace o di felicità.

15 postero: l’aggettivo sottointende il sostantivo diei.