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Epicuro: filosofia ed opere commentate

"Come si può essere felici?" È a partire da questa domanda fondamentale che Epicuro e la sua scuola sviluppano una articolata filosofia, che, prendendo le mosse dagli insegnamenti di un maestro presto assurto a rango quasi mitico, si diffonde ampiamente nell’antichità, in coincidenza con quella fase del pensiero greco che, dopo la svolta socratica, sviluppa ed approfondisce le problematiche etiche connesse alla vita di ciascuno di noi. In tutto questo, la proposta filosofica di Epicuro non perde la sua organicità e la sua vocazione a trattare esaustivamente tre branche del reale, strettamente connesse tra di loro; come riassume bene Diogene Laerzio, nelle sue Vite dei filosofi, la filosofia epicurea:

[...] si divide in tre parti: la canonica, la fisica, l’etica. La canonica costituisce come l’introduzione a tutto il complesso della dottrina, ed è contenuta solo nell’opera che si intitola Canone. La fisica riguarda tutta la scienza della natura, ed è esposta nei trentasette libri dell’opera Sulla natura e in forma di compendio nelle lettere. L’etica concerne quel che riguarda ciò che si deve eleggere e fuggire; è esposta nell’opera Sui generi di vita, nelle lettere e nell’opera Sul fine.

La fisica epicurea, nel suo fondarsi sui concetti di atomi e di vuoto, è ovviamente debitrice dell’impostazione democritea, da cui però il filosofo nativo di Samo si distacca per la scelta di fissare in tre fattori (la “figura”, la “grandezza” e il “peso”) gli elementi cardinali per illustrare le differenze nell’aggregarsi della materia. Centrale è poi il concetto di clinamen, termine latino che traduce il greco parènklisis, usato da Epicuro per rendere il moto e la traiettoria degli atomi, svincolati da un qualche principio causale o da un senso finalistico. Questa teoria atomistica si sposa assai bene con l’idea di conoscenza dei circoli intellettuali dell’epicureismo: la rivalutazione della sensazione (l’aìsthesis, che dipende innanzitutto dal contatto superficiale con gli atomi che compongono gli oggetti) quale “criterio di verità” dei nostri processi conoscitivi è un dato di fondo cui, per Epicuro, non si può rinunciare; ad essa, si aggiungeranno nella “canonica” (appunto, la teoria del conoscere) del filosofo l’anticipazione (pròlepsis) e l’affezione (pathos).

 

Obiettivo della riflessione epicurea è allora liberare l’uomo dalle paure più profonde e radicate (lezione di cui ben si ricorderà Lucrezio nel proemio del suo De rerum natura), secondo la nota formulazione del “quadrifarmaco”: “Non sono da temere gli dei; non è cosa di cui si debba stare in sospetto la morte; il bene è facile a procurarsi; facile a tollerarsi il male”. Il tema della felicità (o, per meglio dire, della eudaimonìa) ritorna allora in molti scritti del filosofo, tra cui la Lettera a Meneceo, destinata alla circolazione tra le mura della scuola di Epicuro e di chiara impostazione protrettica:

Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. Perciò la retta conoscenza che la morte non è niente per noi rende gioiosa la stessa condizione mortale della nostra vita, non prolungando indefinitivamente il tempo, ma sopprimendo il desiderio dell’immortalità. Nulla c’è di temibile nel vivere per chi si sia veracemente convinto che nulla di temibile c’è nel non vivere più. [...] Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più.

L’invito alla filosofia e alla scoperta che “il piacere è principio e fine del vivere felicemente” è allora il lascito principale dell’etica epicurea, ribadita anche, in altre forme, in alcuni passaggi più sintetici del suo pensiero: 

Di quanto la saggezza prepara alla beatitudine di tutta la vita, la cosa senza confronto più grande è l’amicizia.