"I Promessi Sposi" e l'Innominato: la notte e la conversione

Personaggio centrale nell’economia narrativa de I Promessi Sposi, l’Innominato viene presentato dal narratore con tecniche analoghe a quelle utilizzate per Don Abbondio e il "ramo del lago di Como" nel capitolo d’apertura del romanzo; nel personaggio, alla fonte storica (che identificherebbe l’Innominato nella figura di Francesco Bernardino Visconti) si sommano una serie di elementi (il parallelismo con Fra Cristoforo, il travaglio interiore dopo il confronto con Lucia, il pentimento e la redenzione di fronte al cardinal Borromeo) che si ricollegano esplicitamente al messaggio di fiducia nella Provvidenza divina che anima l’intera opera manzoniana. L’importanza di questo cammino intimo dell’Innominato è confermato dallo spazio che Manzoni vi dedica, a cavallo tra XVIII e XXI capitolo; è in queste pagine che, proprio mentre tutti gli eventi sembrano favorire i piani malvagi di don Rodrigo (l’autoesilio di Renzo dopo i tumulti milanesi, l’intervento del conte zio e l’allontanamento di Fra Cristoforo, il piano ordito da suor Gertrude), le sorti per i due protagonisti cominciano a volgere al meglio.
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Nel momento in cui lo incontriamo nel romanzo, il personaggio dell’Innominato è presentato come una sorta di demonio avvolto dal mistero. Di lui si dice infatti che fosse “un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé” (cap. 18); l’Innominato era insomma “un terribile uomo” (cap. 19) del quale non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo” (cap. 19).

 

In queste prime pennellate che il narratore gli riserva, l’innominato viene quindi esplicitamente descritto come figura di ispirazione storica (sembrerebbe rispondere al personaggio di Francesco Bernardino Visconti), ma al tempo stesso circondata da un’alone di leggenda e mistero sufficienti da lasciare al Manzoni ampia libertà di movimento per connotare, per “inventare” romanzescamente, il personaggio. Questa invenzione si esercita in particolar modo nella descrizione del travaglio interiore che trasforma l’innominato da eroe della passione e della violenza, tanto emblematicamente seicentesco, in esempio di grande convertito alla fede. Questa parabola di vita, da un passato di violenza a una vita di servizio verso il prossimo attraverso una conversione pubblica, affianca l’innominato ad un altro grande personaggio del romanzo, fra Cristoforo. Dell’Innominato Fra Cristoforo è inizialmente oppositore e nemico. Il nome di Cristoforo – dice infatti il narratore – era all’Innominato “noto e odiosissimo, in quanto il frate era “nemico aperto de' tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere”. Nella vicenda del romanzo, tuttavia, i due non si incontrano né si scontrano mai, ma assumono sempre più ruoli e tratti comuni. Tra i parallelismi istituiti dal narratore tra i due personaggi, vi è anche la modalità di presentazione. L’innominato, infatti, così come Fra Cristoforo e come poi sarà anche per la terza figura maschile legata alla tematica della fede nel romanzo, cioè quella del cardinale Federigo Borromeo, viene introdotto nel romanzo gradualmente, e con una serie di sequenze in successione ben precisa: l’evocazione nei pensieri e nelle parole altrui, poi il racconto della vita, e infine l’entrata in azione.


L’evocazione dell’Innominato si colloca in particolare nel diciottesimo capitolo del romanzo: qui un Don Rodrigo scornato tanto dal mancato successo del piano di rapimento di Lucia nella "notte degli imbrogli", quanto dalle canzonature poi fattegli dal cugino Attilio, che incomincia a meditare di cercare aiuto presso un vicino potente e tiranno molto al di sopra di lui, l’Innominato appunto. Il carattere di costui e le sue vicende passate, dall’adolescenza fino al presente del romanzo, vengono però raccontate solo al termine del capitolo successivo, il diciannovesimo. L’innominato – si dice – apparteneva ad una ricca famiglia dell’alta nobiltà e in ogni tempo le sue grandi passioni erano state:

 

Fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla dagli altri.

Di fronte alle prepotenze e alle gare di potere del sue tempo, aveva provato un sentimento misto di sdegno e di invidia impaziente e così ben presto aveva intrapreso la carriera del tiranno, cosa che gli era riuscita tanto bene da essere costretto addirittura all’esilio. Tornato poi in patria, si era stabilito in un castello al confine tra il ducato di Milano e il territorio bergamasco, castello da cui esercitava un predominio indiscusso - e tanto più forte quanto più circondato da fosca leggenda - su un vastissimo territorio intorno. In questo castello ritroviamo dunque il nostro personaggio nel XX e XXI capitolo, quando finalmente entra, o meglio, è chiamato da don Rodrigo a entrare, in azione. L’apparizione del personaggio dell’Innominato si colloca dunque a cavallo esatto della metà del romanzo e contribuisce in maniera significativa a segnare la svolta tra i primi diciannove capitoli e gli altrettanti successivi. Il blocco di capitoli dal XVIII al XXI è infatti dedicato alla rimozione di tutti gli ostacoli che  impediscono a don Rodrigo di impadronirsi di Lucia: arriva infatti a Lecco la notizia dell’autoesilio di Renzo, a causa della sua condotta sprovveduta durante i tumulti di San Martino a Milano; il conte zio del Consiglio segreto, su istigazione di Attilio, riesce ad ottenere dal Padre Provinciale l’allontanamento di fra Cristoforo da Pescarenico. Anche Agnese è costretta ad allontanarsi da Lucia, per tornare al paesello e cercare notizie di Renzo e del frate. A Don Rodrigo non resta che trovare il modo di togliere Lucia dal convento di Monza in cui si è rifugiata sotto la protezione della Signora, suor Gertrude. Per riuscirci, richiede appunto l’aiuto dell’Innominato, che favorito da Egidio e dai suoi legami con Gertrude, riesce facilmente nell’impresa.


Ma il contatto con Lucia accentua nell’Innominato una crisi esistenziale già da tempo in atto, e ne prepara la conversione che sarà poi sancita e ufficializzata dal colloquio con il grande cardinale Federigo Borromeo. Il progetto di Don Rodrigo va dunque in fumo proprio a un passo dal successo, e l’Innominato cambia radicalmente il suo ruolo nel romanzo: da supremo, ultimo, inespugnabile antagonista dei due "promessi sposi", ne diviene uno degli Aiutanti. Questo cambiamento ha risonanza profonde anche nella struttura romanzesca: inizia infatti qui la parabola discendente che porterà al lieto fine della vicenda. Per tutti i capitoli che mancano, a separare i promessi sposi non saranno più i piani degli uomini (i piani di don Rodrigo, gli imbrogli di don Abbondio e così via) ma saranno, da una parte l’agire contro sé stessi di Renzo e Lucia in persona (il primo - l’abbiamo detto - si è autoesiliato nel territorio di Bergamo, la seconda ha fatto voto di consacrarsi alla Madonna), e dall’altra parte i grandi eventi che rientrano nella logica dei piani di Dio, come ad esempio la peste. Che a partire dal capitolo XX inizi una seconda e diversa fase del romanzo è confermato anche dal fatto che il capitolo si apra con una descrizione, quella del castellaccio dell’Innominato, che è condotta in modo analogo alla descrizione iniziale del romanzo, quella dal famoso attacco “Quel ramo del lago di Como”. Come la prima descrizione, anche questa seconda procede infatti a zoom. Si parte da una prospettiva in qualche modo aerea, allargata a coprire tutta la valle che circonda il castello dell’Innominato. Si scende poi d’un poco, e si prende il punto di vista di qualcuno che guardi il territorio d’intorno da una delle finestra del castello. Infine ci si abbassa a livello della strada affiancandosi a don Rodrigo e ai suoi bravi che stanno andando al castello dell’Innominato. Si osservi che nella prima parte del romanzo, era Don Rodrigo a contraddistinguersi per un dominio dall’alto.

 

In questa seconda parte del romanzo, invece, anche don Rodrigo si è fatto piccolo e si ritrova a muoversi in basso, mentre al di sopra di lui è l’Innominato a dominare: infatti,

 

Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.

Come si vede, la descrizione del castello continua e porta a compimento la raffigurazione dell’Innominato che si era avviata nel capitolo precedente. L’innominato si pone come un padrone assoluto e autoritario, che guarda chiunque sentendosi superiore, dall’alto verso il basso, e non pare concepire alcuna autorità, alcuna trascendenza al di sopra di lui. Intorno a lui è quindi desolazione, sottomissione, strade tortuose e pericolo. Ben presto, però, il narratore incomincia a insinuarci l’idea che questo sistema di vita dell’innominato sia ad un punto di rottura. Il primo elemento di crisi è costituito dalla presa di coscienza da parte dell’innominato della natura solo apparente della sua libertà: egli, superbo, pensa infatti di non essere sottomesso ad alcuno ma si ritrova ad essere invece schiavo del delitto e - nella logica cristiana manzoniana - del peccato. Tanto è vero che si ritrova praticamente costretto dalla propria indole, dal proprio passato e dalla propria fama ad accettare la richiesta criminale di don Rodrigo. Il secondo elemento di crisi è il pensiero della morte - l’Innominato ormai è anziano e deve farci i conti - e con esso anche il pensiero di un possibile giudizio ultraterreno. Insomma, i nodi di una vita violenta e di sopraffazione giungono al pettine e l’Innominato . anima parva ma grande - incomincia a capire o forse a ricordare che arriva per tutti il momento di mettersi faccia a faccia con Dio e la propria coscienza, le cui voci sempre più imperiosamente si fanno sentire dentro di lui. Tutti questi pensieri diventano ineludibili nel momento in cui l’Innominato incontra Lucia sua prigioniera, sente compassione per lei, spaventata, e ascolta suppliche di libertà dettate da una fede cieca e certa nella misericordia e nel perdono di Dio. “Dio", dice Lucia, "perdona molte cose per un’opera di misericordia”. Sconvolto da queste sensazioni e da queste parole, tormentato dalla propria crisi, l’Innominato attraversa una notte tenebrosa e sofferta, che lo spinge anche a meditare il suicidio, ma che si conclude poi all’alba con una promessa di redenzione, quella di liberare Lucia, e con un segno di sconosciuta speranza: il suono delle campane che annunciano la visita pastorale nelle campagne d’intorno del cardinale Borromeo. Affacciatosi alla finestra, alla vista della gioia della folla in festa che accorreva, anche l’Innominato decide di recarsi da questo grand’uomo.

 

Si configura così un incontro tra due grandi autorità molto diverse tra loro: quella laica e tirannica dell’Innominato, e quella ecclesiastica e santa del cardinale Borromeo. Questo incontro tra autorità laiche ed ecclesiastiche è in realtà l’ultimo di una serie che parte molto prima e annovera esiti diversi, e che possiamo provare a interpretare osservando la resa iconografica del Gonin. Il primo incontro che dobbiamo prendere in considerazione è quello fallimentare tra Don Rodrigo e fra Cristoforo: don Rodrigo, si vede, è tanto aggressivo quanto sulla difensiva, non ha chiesto certo al frate di venirgli a fare la predica in casa (è stato fra Cristoforo a salire al palazzo del potere e non don Rodrigo a scenderne), non c’è in lui alcuna predisposizione interiore al pentimento e alla conversione. L’unico risultato possibile è la cacciata del frate e con lui la rimozione del sentimento di Dio. Il secondo incontro è quello tra il Conte zio del Consiglio Segreto e il padre Provinciale dei Cappuccini: due politici consumati, che parlano e tramano senza guardarsi negli occhi nel segreto delle stanze del potere, e che il Gonin – non a caso, raffigura prima seduti e poi di spalle. Quello tra l’Innominato e Federigo Borromeo, dunque il terzo di questa tipologia di incontri, è l’unico a concludersi con una conversione sincera, aperta, pubblica e manifesta. I perché di questo successo sono molti: l’innominato, a differenza di don Rodrigo, a seguito del suo travaglio interiore ha messo da parte la sua superbia altezzosa, è sceso dal proprio nido di potere. La sua conversione scaturisce dal dolore e da una sorgente interiore, ed è solo catalizzata dalle due altre figure di fede con cui egli si incontra e dialoga, da una parte Federico Borromeo e dall’altra Lucia. Anche questo è un tratto della fede manzoniana: l’aver fatto convergere i ruoli salvifici di un grande ministro della chiesa e di un’umile contadinotta.