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"L'infinito": interpretazioni critiche della poetica di Leopardi

Parafrasi Analisi Interpretazioni critiche

In questo idillio, come è noto, Leopardi vuole suscitare nel lettore principalmente due sensazioni: una visiva e una uditiva. La prima porterà alla percezione di un infinito spaziale e la seconda temporale. Tali percezioni di infinità - come ha ormai certificato la critica moderna - non concedono niente alla teologia, alla metafisica e, più in generale, all’ambito del sacro, ma sono tutte interne alla finzione immaginativa e poetica. È più giusto dunque parlare, come osserva Walter Binni, di un canto “sorretto da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”. L’idillio è insomma - coerentemente alla definizione che si legge nei Disegni letterari - “un'avventura storica dell'animo” del poeta, che racconta di un'estasi dei sensi, i quali, di fronte alla figurazione momentanea dell’infinito, prima si “spaurano” e poi “naufragano dolcemente”. Per rendere questo duplice piano psicologico-percettivo Leopardi adotta precise tecniche espressive, che esemplificano al meglio la sua idea di poesia “vaga e indefinita” teorizzata a più riprese nello Zibaldone (cfr. almeno pp. 514-16, 1430-31, 1744-47), la quale, a sua volta, trova il principale nucleo ideologico nella famosa "teoria del piacere" (pp. 165-72), dove, tra l’altro, si parla proprio dell’“inclinazione dell’uomo all’infinito” (Zibaldone, luglio 1820)

Iniziamo ad osservare la sintassi. A parte il primo e l’ultimo verso, i restanti tredici non formano enunciazioni isolabili, ma sono legati tra loro in un “continuum metrico-sintattico”, come lo definisce Luigi Blasucci, che abbraccia l’intera poesia. Se guardiamo il totale dei versi, infatti, balza immediatamente all’occhio che ben dieci sono collegati da enjambements, che così contribuiscono a sviluppare un discorso poetico assai “legato” e coeso. Non solo. Avverbi, congiunzioni e connettivi in genere abbondano in tutto l’idillio: “ma sedendo” (v. 4), “ove per poco” (v. 7), “e come il vento” (v. 8), “e mi sovvien” (v. 11), “così tra questa immensità” (vv. 14-15), “e il naufragar” (v. 15).  La congiunzione, poi, ha un ruolo veramente determinante perché collega per polisindeto tanto i singoli elementi descrittivi (vv. 5-7: “interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi e profondissima quiete”), quanto i passaggi tematici della poesia, trovandosi in quest’ultimo caso sempre in posizione forte di inizio verso o di inizio proposizione (v. 2: “e come il vento”; v. 15: “e il naufragar”).

Anche il lessico è volutamente selezionato, così da allontanare le percezioni di finitudine, di concretezza e di precisione a vantaggio di una sensazione indeterminata e dilatata sia nello spazio che nel tempo. Nella prima parte (quella dedicata all’infinito “spaziale”) Leopardi sceglie aggettivi polisillabici, con valore superlativo (“interminati”, v. 4; “sovrumani”, v. 5; “profondissima”, v. 6), accoppiandoli a sostantivi astratti di valore assoluto (“spazi”, v. 5; “silenzi”, v. 6; “quiete”, v. 6). Mantengono lo stesso valore anche i sostantivi della seconda parte (ove predomina l’infinito “temporale”) come “eterno” (v. 11) e “stagioni” (v. 12), affiancati però ad aggettivi con un minor numero di sillabe: non più quadrisillabi o pentasillabi, ma trisillabi: “morte” (v. 12), “presente” (v. 12), “viva” (v. 13). Ancora più brevi le scelte lessicali del momento conclusivo, dove si scende a due sillabe: “dolce” (v. 15) e “mare” (v. 15). Una funzione essenziale rivestono, inoltre, gli aggettivi dimostrativi, che collocano nello spazio l’esperienza psicologica della poesia, che pure trascende uno spazio e un luogo specifici. Inizialmente essi accompagnano riferimenti toponomastici precisi (“quest’ermo colle”, v. 1; “questa siepe”, v. 2; e “queste piante”, v. 9, sono senz’altro quelli che il poeta ha davanti a sé, vale a dire sul Monte Tabor di Recanati, dietro il “paterno ostello”), per poi andare ad affiancare elementi con valenza più generica e indeterminata (“questa immensità”, vv. 13-14; “questo mare”, v. 15).

Infine vale la pena osservare - sempre con l’aiuto degli insostituibili studi di Luigi Blasucci - come tutto l’idillio sia pervaso da un’atmosfera emotivamente vibrante, in cui traspare il coinvolgimento non solo di un io fittizio e impersonale, ma anche di un io interno e effettivamente coinvolto nell’esperienza. Pare insomma che Leopardi, da questi celebri versi, voglia anche lasciar intravedere in filigrana il suo volto, il suo rapporto col luogo da cui si irradia questa esperienza. Lo si può ben osservare nel primo verso dove il “colle”, teatro della scena, è luogo da “sempre caro”, carico quindi di ricordi e di familiarità (confermata dall’incipit di Alla luna, vv. 1-3: “O graziosa luna io mi rammento | che, or volge l’anno, sovra questo colle | io venia pien d’angoscia a rimirarti”). E lo si può notare dall’uso, in seguito ripetuto, del dativo etico o d’affetto espresso dal sintagma “mi”. Dunque un luogo dell’assoluto, senz’altro; ma anche un luogo reale, che fu da sempre “a me” - cioè a Giacomo Leopardi - “caro”, e un “naufragare” dei sensi che “a me”, al poeta e filosofo precocemente impegnato nel disvelamento dell’“arido vero”, non può che riuscire “dolce”. 

Bibliografia essenziale:

- W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
- L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
- F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.