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Kant e la "Dialettica trascendentale": il "concetto limite"

Se in tutta la Critica della ragion pura Immanuel Kant indica come compito della dialettica trascendentale quello di contestare e smontare pezzo a pezzo le illusorie costruzioni teoriche della metafisica tradizionale, si capisce che l’obiettivo è davvero cruciale nel momento in cui il filosofo prussiano sceglie, nell’Appendice che conclude la sezione della Dialettica, di tornare ancora una volta sulla questione.

 

È qui che si può cogliere la profondità e l’accuratezza della riflessione kantiana (e della celebre “rivoluzione copernicana” della filosofia dei suoi tempi); questa infatti non svaluta affatto le risorse e le prerogative dell’intelletto, ma si pone lo scrupolo metodologico di fissarne dei paletti operativi, che servano al tempo stesso sia come limiti (per non cadere nelle illusioni e nelle antinomie della metafisica cui Kant allude nelle pagine della Critica) sia come spinta alla nostra stessa sete di conoscere e sapere. Questo perché:

 

La ragione non crea quindi concetti (di oggetti), ma si limita a ordinarli e a dar loro quella unità che essi possono acquisire nella loro maggior estensione possibile, cioè rispetto alla totalità della serie; a questa totalità l’intelletto non pone mente, avendo di mira soltanto la connessione per la quale si vanno ovunque costituendo serie di condizioni in base a concetti.

L’intelletto umano non deve cioè commettere l’errore di voler afferrare la totalità, ma piuttosto deve divenire il quadro di riferimento entro cui ordinare (e quindi conoscere) i fenomeni stessi, che, per Kant, sono sempre sussunti (e cioè ricondotti ad un’unità superiori) alle categorie del nostro pensare. Se dev’essere infatti rifiutato l’uso “costitutivo” delle idee della ragion pura (che mira illusoriamente ad afferrare la conoscenza totale), non bisogna scordare l’uso “regolativo” che esse hanno o, in altri termini, la loro utilità come norme e regole del ben ragionare e come “molle” ad un inesauribile percorso di conoscenza:

 

Io asserisco dunque che le idee trascendentali sono inadatte a qualsiasi uso costitutivo, per cui debbano fornire concetti di oggetti; e che se sono intese in questo modo, si risolvono in semplici concetti raziocinanti (dialettici). Esse hanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente nel dirigere l’intelletto verso un certo scopo, in vista del quale le linee direttive delle sue regole conergono in un punto che [...] serve tuttavia a conferire a tali concetti la massima unità ed estensione possibile.

Questo “punto” - che per Kant è deliberatamente un “focus immaginarius”, cioè “un punto da cui non possono realmente provenire i concetti dell’intelletto, perché è fuori dell’esperienza possibile” - è alla base di uno degli aspetti fondamentali del pensiero kantiano, e sua cospicua eredità per tutta la filosofia ottocentesca. Il “come se” serve a Kant appunto come concetto-limite, che si applica funzionalmente, nell’Appendice, alla psicologia, alla cosmologia e e alla teologia; e quindi, conclude Kant:

 

Questo vuol dire [...] che non bisogna derivare l’ordine e l’unità sistematica del mondo da una suprema intelligenza ma, invece, dall’idea d’una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione.