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"Inferno", Canto 26: commento critico
La lussuria e la superbia sono due peccati che Dante evidentemente ben conosce e non è un caso che i canti dell’Inferno dedicati a questi due peccati siano tra i più celebri; in particolare, sono legati alla parola e alla capacità di parlare, all’elocuzione, alla capacità degli essere umani di ascoltare: leggere le parole, come nel caso di Francesca, o parlare in pubblico, con le orazioni di Ulisse.
Siamo nel XXVI canto, nell’ottava bolgia, nell’ottavo cerchio dell’Inferno che è dedicato ai consiglieri di frode; il peccato di Ulisse punito in questo canto, infatti, consiste nell’aver trascinato la “compagnia picciola” dei suoi compagni di viaggio nel suo folle volo. Il tema del viaggio è naturalmente la cornice narrativa dell’intera Commedia. Come si dice in retorica, c’è una mise en abîme, c’è un viaggio dentro il viaggio, che è appunto il viaggio di Ulisse. Il viaggio di Ulisse è lo specchio del viaggio di Dante, infatti in questo canto Ulisse ci viene narrato in un’avventura che non è tra quelle tramandate dall’Odissea omerica (Dante non poteva conoscere il testo direttamente perché non poteva essere giunto a lui e non poteva leggerlo in greco), ma è una tradizione secondaria di un viaggio ulteriore che Ulisse avrebbe affrontato dopo il ritorno a Itaca, quindi in tarda età, coinvolgendo i suoi antichi compagni in una nuova avventura oltre le colonne d’Ercole, quindi nell’Oceano Atlantico.
Dante segue questa tradizione medievale: l’immaginazione che inserisce e sovrappone la figura di Ulisse su quella di Dante è che quest’ultimo viaggio di Ulisse, quello in cui incontra il suo destino mortale, è indirizzato verso la montagna del Purgatorio. Lo stesso Dante si sta recando su quella montagna perché siamo negli ultimi canti dell’Inferno; presto, con un capovolgimento di fronte, quel moto che va verso il basso tipico dell’Inferno, si capovolgerà in un moto ascensionale, quello sulle balze del Purgatorio, della montagna del Purgatorio che appare negli ultimi versi del canto di Ulisse. In questo caso Virgilio è una guida ancora più opportuna e salda che nel resto della narrazione infernale. In particolare spiega che le anime dei condannati, in questo caso, sono avvolte all’interno di una fiamma e che questa fiamma interrogata da Virgilio, in realtà, ha due anime, due corpi che simboleggiano i corpi di Ulisse e Diomede: nella tradizione seguita da Dante sono i colpevoli del grande inganno risolutivo nella vicenda dell’Iliade, ovvero l’artificio del cavallo di Troia. Dante si rivolge a Virgilio affinché faccia non solo da tramite, ma anche da interprete poiché Dante non conosce di prima mano i personaggi dell’antica Grecia, i personaggi provenienti dall’immaginario greco. Dante utilizza Virgilio come mediatore, esattamente come in effetti sono i poeti latini quelli da cui derivano le tradizioni che interpreta in questo canto: non solo Virgilio, ma anche, e soprattutto, Stazio come fonti del XXVI canto dell’Inferno.
«S'ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss'io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,che non mi facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego!».Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch'e' fuor greci, forse del tuo detto»
Virgilio ha capito cosa vuole chiedere alla fiamma cornuta che avvolge Ulisse e Diomede, ma è opportuno che il concetto di questa domanda sia io a portarla perché essendo greci non capirebbero le tue parole.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:«O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o pocoquando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
Come il vento abbassa la punta della fiamma, il corno, che simboleggia Ulisse, si piega verso i viandanti e spiega come è pervenuto nell’aldilà.
Indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quandomi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,acciò che l’uom più oltre non si metta:
Con la concretezza storica e geografica di Dante, in questo caso soprattutto geografica, ci viene descritto il punto esatto in cui sarebbe passata quest’ultima avventura di Ulisse: le colonne d’Ercole, lo stretto di Gibilterra, tra la Spagna e il Marocco, che secondo il sistema geografico e morale medievale simboleggiava il limite dell’universo conosciuto che non andava oltrepassato.
da la man destra mi lasciai Sibilia, [Siviglia]
da l’altra già m’avea lasciata Setta. [Ceuta, Marocco]«O frati», dissi «che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigiliad’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
L’ultima esperienza che l’avventuriero può compiere con i suoi compagni, “la compagnia picciola”, è quella del mondo senza gente, dell’aldilà, della montagna del Purgatorio; secondo le credenze che Dante segue, si troverebbe al centro dell’Emisfero Australe, cioè all’estremo limite meridionale del globo terrestre, che può essere raggiunto solo oltrepassando le colonne d’ercole e attraversando l’Oceano Atlantico.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Volgendosi verso sud, ma anche verso ovest, dentro l’Oceano Atlantico e verso il Polo Australe:
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
(All’inizio del Purgatorio Dante vedrà le stelle dell’Emisfero Australe).
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
La scoperta della montagna del Purgatorio, l’orizzonte di questo viaggio estremo, desta la felicità dei viaggiatori, ma questa felicità si muta subito in pianto perché dalla stessa montagna proviene la tempesta che infine causa il naufragio e la morte dei viaggiatori.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».
La morte di Ulisse e dei viaggiatori avviene con un turbine, cioè con un gorgo, con un abisso che li attrae verso il basso, ma se pensiamo a come si concluderà il Paradiso con l’immagine di Dante che, di fronte all’immagine divina, a sua volta ruota e si eleva verso la salvezza transumana, vediamo che la perdizione, la condanna per la superbia intellettuale, per la volontà di conoscere oltre i limiti che alla conoscenza sono stati posti, è l’altra faccia della salvezza religiosa, della visione di Dio sulla quale si conclude il poema, il viaggio di Dante.