Il Corbaccio è la più celebre tra le opere composte da Giovanni Boccaccio dopo la pubblicazione del suo capolavoro, il Decameron. Probabilmente la stesura del componimento risale al 1365, dopo che Boccaccio scelse di vivere in ritiro a Certaldo. Il Corbaccio è scritto in prosa volgare, e gli studiosi si dividono nel riconoscervi o meno degli elementi autobiografici. L’innovazione più evidente dell’opera emerge nella presentazione dell’amore e della figura femminile. Dal Boccaccio amante delle donne e da un amore nobilitante che rende umani anche gli animali (come nella Caccia di Diana) si passa alla visione onirica di amanti trasposti in fiere, e di una donna malvagia, orribile e avvizzita. La Divina Commedia, come sempre, influenza moltissimo il Boccaccio del Corbaccio. Anche qui, infatti, lo sfondo della vicenda narrativa è un sogno e l’ambientazione è simile a quella del Purgatorio dantesco.
Corbaccio, deluso dal rifiuto di una vedova di cui era innamorato, si addormenta e si ritrova tra le anime di coloro che in vita hanno ceduto all’illusione dell’amore, che si presentano sotto forma di fiere. La "guida" di Corbaccio, molto poco virgiliana, è l’anima del marito della vedova che, in cambio della promessa della celebrazione di messe in suo onore e della trascrittura di ciò che gli rivelerà, racconta a Corbaccio tutti i difetti, morali e fisici, della donna. Così la figura della vedova, e con lei quella femminile in genere, viene distrutta dalle parole del Boccaccio. Il Corbaccio, indipendentemente dalla sua caratterizzazione più o meno autobiografica, è allora il prodotto della svolta religiosa e classica del Boccaccio, che quasi rinnega la propria posizione nel Decameron. La Beatrice angelicata di Dante viene sostituita da una donna turpe, che porta l’uomo alla rovina e alla follia. Quest’opera riscosse moltissimo successo, e fu la più stampata di Boccaccio insieme al Decameron. Nell’estratto che segue - buon esempio della misoginia dell'ultimo Boccaccio - leggiamo ciò che l’anima del marito della vedova rivela a Boccaccio sulla donna, affinché egli si ravveda e smetta di soffrire per amore:
"Ma lasciamo stare l'essere le femine così fiere, così vili, così orribili, così dispettose, come ricordato t'hanno le mie parole, e l'avere la lettera tua palesata così schernevolmente, e te per qualunque delle dette cagioni o per qual'altra voglia avere a dito mostrato alle femine, e vegnamo al focoso amore che portavi a costei e ragioniamo della tua demenzia in quello”. [...] Ma furonti sì gli occhi corporali nella testa travolti che tu non vedessi lei essere vecchia e già stomachevole e noiosa a riguardare? E, oltre a ciò, qual cechità d'animo sì quelli della mente t'avea adombrati che, cessando la speranza del tuo folle desiderio in costei, con acerbo dolore ti facesse la morte disiderare? Qual miseria, qual tiepidezza, qual tracutaggine te a te così avea della memoria tratto che, venendoti meno costei, tu estimassi che tutto l'altro mondo ti dovesse essere venuto meno e per questo volere morire? [...] E a costei andando quanto tu più umile potevi, non parendoti così bene essere ricevuto come disideravi, non ti partivi, come fatto avresti e faresti, da quelli che esaltar ti possono, dove costei sempre ti deprimerebbe, ma chiamavi la morte che t'uccidesse; la qual più tosto chiamar dovevi, avendo riguardo a quello a che l'anima tua s'era dechinata, a che viltà, e a cui sottomessa: a una vecchia rantolosa, vizza, malsana, pasto omai più da cani che da uomini, più da guardare la cenere del focolare omai, che da apparire tra genti perché guardata sia”.