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"I fiumi" di Ungaretti: commento e analisi del testo
I fiumi
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla lunaStamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposatoL’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sassoHo tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acquaMi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il soleQuesto è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universoIl mio supplizio
è quando
non mi credo
in armoniaMa quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicitàHo ripassato
le epoche
della mia vitaQuesti sono
i miei fiumiQuesto è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madreQuesto è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianureQuesta è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciutoQuesti sono i miei fiumi
contati nell’IsonzoQuesta è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
È forse la poesia più celebre e più riassuntiva de Il porto sepolto e de L’Allegria. È un vero riassunto, nel senso che è come se ricapitolasse i temi del libro che poi resteranno i temi di Ungaretti, il quale cambierà radicalmente la sua cifra espressiva e musicale. Dal punto di vista tematico, invece, i sensi profondi della sua poesia restano questi: il senso di una fusione con il paesaggio, il senso della memoria, il senso del ripercorrere una memoria addirittura filogenetica, cioè che risale il fiume delle generazioni, ricapitolando la memoria della propria esistenza, addirittura nel fiume del paesaggio da cui provenivano i suoi genitori: il Serchio della gente campagnola di Toscana; poi naturalmente il Nilo d’Egitto, Alessandria dove Ungaretti nasce: è la città del delta del Nilo; la Senna di Parigi: il torbido, il malessere esistenziale in cui Ungaretti è cresciuto e ha conosciuto la sua vocazione letteraria; infine l’Isonzo: il fiume tragico, il fiume di sangue del Carso, il fiume su cui per dodici terribili battaglie i fanti italiani furono lanciati all’assalto del sadico generale Cadorna contro le mitragliatrici austriache. Questa tragedia della prima guerra mondiale è l’argomento de Il porto sepolto, ma è come se fosse lo scenario teatrale della vicenda esistenziale del poeta.
Il poeta resiste nel paesaggio come un albero mutilato: una “dolina”, cioè il paesaggio scavato e privo di vegetazione, completamente abraso dalla particolare conformazione geologica del Carso, ma anche dalle ferite, dai colpi inferti dalla guerra, dai bombardamenti, dall’uso dei gas, da tutte le altre orribili tecnologie moderne che in quel momento, per la prima volta, il popolo italiano e tutti i popoli europei venivano a conoscere nel loro volto più terribile. Questo paesaggio lunare trova un solo rappresentante, un solo sopravvissuto: l’albero mutilato. Rispetto alle altre poesie, quelle più brevi della raccolta dedicate perlopiù ai compagni, ai commilitoni morti, qui Ungaretti non celebra i sommersi, bensì il salvato, cioè fondamentalmente se stesso, raccontando la sua biografia. Il compito del poeta per Ungaretti è di scrivere una bella biografia e i fiumi, nella loro brevità che è tipica anche della poesia di Ungaretti, sono una vera e propria autobiografia scandita attraverso le immagini dei fiumi. L’immagine del fiume è un’immagine topica della tradizione letteraria, in particolare romantica, ancora una volta simbolista che Ungaretti sicuramente conosceva, ma è anche un’immagine naturale di continuità. Rispetto alla disgregazione, rispetto alla musica interrotta, singhiozzante de L’Allegria, questi fiumi preannunciano il momento della ricomposizione; ricostruiscono il tessuto (la “docile fibra dell’universo”, come la definisce Ungaretti) del soggetto nella continuità con la natura e con la storia. Non si tratta solo della storia familiare, di un individuo, ma anche della storia di una comunità. Quell’italianità, quella patria che Ungaretti non aveva conosciuto per nascita e che aveva vissuto come estraneità nel suo periodo parigino, viene invece clamorosamente incontrata e celebrata nel momento più difficile, più tragico, cioè il momento della guerra.
Per molti intellettuali e scrittori la guerra fu la frantumazione dell’esistenza, la fine della propria vicenda di poeti e di scrittori. Si pensi a un grandissimo poeta, Clemente Rebora, che scrisse poesie, forse ancora più belle di Ungaretti, sulla prima guerra mondiale, ma l’esperienza lo travolse, lo distrusse, lo sconvolse a un punto tale che dovette smettere di scrivere, dovette interrompere la sua vicenda di poeta. Al contrario, Ungaretti si celebra ed entra nella scena della letteratura proprio in questo momento tragico, celebrando se stesso. C’è un’altra celebre poesia de L’Allegria, cioè Veglia, in cui contrappone il suo destino di salvato con il destino del commilitone rimasto ucciso. Quel destino di salvato di Ungaretti si celebra e si autocelebra nei fiumi attraverso questa musica ormai quasi del tutto ricomposta. La metrica è ancora quella tipica del primo Ungaretti: una metrica di spezzature, di interruzioni e singhiozzi, ma già prelude al momento della ricomposizione. Ungaretti tornerà finalmente in Italia, diventerà cittadino italiano, si integrerà nel corpo mistico dell’identità fascista e per un momento della sua vita penserà di aver incontrato il suo popolo.