Introduzione
Pubblicato per la prima volta nel 1953, nella collana dei «Gettoni» Einaudi di Elio Vittorini, Il sergente nella neve (che inizialmente portava anche il sottotitolo Ricordi della ritirata di Russia 1) è il racconto autobiografico 2 del lungo cammino affrontato dai soldati italiani nell’inverno 1942-1943 per rientrare dalla disastrosa campagna di Russia 3. Scritto in un lager tedesco, dove Mario Rigoni Stern fu rinchiuso dopo l'8 settembre 1943, dopo il rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò. Il sergente nella neve, comunemente incluso nel quadro della narrativa del Neorealismo, rappresenta la più lucida testimonianza di uno degli episodi che maggiormente hanno segnato la memoria italiana nella Seconda guerra mondiale.
Tra le altre opere di Rigoni Stern, si possono citare i racconti de Il bosco degli Urogalli (1962), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978). Oltre alla guerra, l’altro grande tema della narrativa dell’autore è sempre di natura autobiografica: si tratta delle storie e degli uomini dell’altopiano di Asiago, ovvero la terra natale a cui Rigoni Stern rimane sempre intimamente legato.
Riassunto e commento
Il sergente nella neve è la cronaca di quanto accaduto al sergente maggiore Mario Rigoni Stern incaricato di guidare la 55° compagnia (plotone mitraglieri) del battaglione Vestone, 6° reggimento Alpini, nella ritirata che dalla Russia doveva riportare in patria i soldati italiani, tra il dicembre 1942 e il febbraio 1943. Il racconto si divide in due parti 4: nella prima, intitolata Il caposaldo, Rigoni Stern ricostruisce la vita di trincea tra le postazioni italiane lungo il corso del fiume Don, dove passa la linea del fronte; la seconda parte, La sacca, mette in scena la vera e propria ritirata, ovvero il lungo e difficilissimo esodo dei soldati tra le praterie innevate della Russia occidentale, costellata da pochi e poveri villaggi fatti di isbe 5 abbandonate e spesso chiuse per impedire all’esercito invasore di trovare rifugio lungo la ritirata.
A scandire la narrazione, che ha la forma di un racconto lungo più che di un vero romanzo 6, è una domanda, riproposta a cadenza quasi fissa. La pronuncia Giuanin, una delle tante figure di commilitoni - come Bosio, Tourn, Antonelli, Bodei o Pintossi - che animano il racconto del “sergente Rigoni”; è una domanda che, nella sua semplicità, contiene tutto il senso di questo racconto:
“Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?” 7
Risuona qui, infatti, tutto il peso del compito che grava sul sergente Rigoni Stern (che confessa: “Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità”) e contemporaneamente si afferma l’unico motivo che tiene i soldati italiani ancora legati ai loro doveri. Le dinamiche geopolitiche (come ) che hanno portato alla guerra non trovano riscontro nelle pagine del racconto; a dominare è la dimensione umana e privata dell’esperienza di tanti uomini trovatisi a combattere nel freddo e nella neve a chilometri di distanza dai loro cari. La speranza di tornare a casa (“a baita” appunto) diventa così il Leitmotiv di tutto il racconto, costituendone anche, al tempo stesso, l’unica e necessaria condizione di possibilità. Infatti, solo in quanto reduce, sopravvissuto a quella lunga e devastante marcia, Rigoni Stern è potuto diventare testimone e scrittore di questa storia, a differenza di tanti compagni morti lungo il cammino. Come per molti altri libri in cui il tema è quello delle tragedie della Seconda guerra mondiale - basti pensare a Se questo è un uomo oppure a La tregua di Primo Levi - la condizione del “reduce” è uno stimolo (e, in molti casi, anche un tormento esistenziale) alla scrittura, per rendere testimonianza a chi non è scampato alla morte.
Il racconto di Rigoni Stern si costruisce così attraverso i piccoli o grandi avvenimenti che si frappongono tra i protagonisti e il loro arrivo a destinazione. La natura monotona del paesaggio invernale russo, amplificata dal ricorso del narratore a un presente indicativo che incastra il racconto in un tempo senza orizzonte, sembra condizionare anche la narrazione vera e propria, che è basata soprattutto sulla ripetizione di gesti, parole e pensieri sempre uguali. Che si tratti di organizzare una difesa quando dall’altra parte del fronte si prepara un nuovo attacco o di far fronte alle urgenze della marcia (come trovare un riparo per la notte e del cibo caldo per ristorarsi o individuare la posizione migliore per la mitragliatrice pesante per rispondere al fuoco russo), il tempo sembra abbia smesso di scorrere, atrofizzando i sensi e la coscienza degli uomini:
Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che si cammina 8.
Soprattutto nella seconda parte del romanzo le pagine non fanno che elencare la reiterazione di movimenti sempre identici e chi deve raccontare non riesce più a distinguere i giorni e gli avvenimenti nella propria memoria:
Da quell’alba non ricordo più in che ordine i fatti si siano susseguiti 9.
In questa distesa di albe e tramonti vissuti invariabilmente “in marcia”, spiccano pochissimi ricordi ben distinti. Nelle prime pagine, è il giorno di Natale 1942 a riaffiorare, con il ricordo dei miseri lussi (un fiasco di vino e due pacchi di pasta) concessi ai soldati per festeggiare. Verso la fine, invece, c’è il 26 gennaio 1943, “questo giorno di cui si è già tanto parlato” 10, passato alla storia come la battaglia di Nikolaevka 11, che s’incide nella memoria di Rigoni Stern come l’ultimo sussulto dell’ARMIR 12 (la sigla sta per “Armata Italiana in Russia”) capace di reggere agli attacchi dell’Armata rossa e di aprirsi, nonostante le numerose perdite, una strada per proseguire la propria ritirata. Più di questo, però, è un altro fatto a rendere quella giornata memorabile e segnare profondamente l’esperienza di quei mesi. Cercando un rifugio per salvarsi dai combattimenti, il sergente Rigoni trova infatti riparo in un’isba, che tuttavia è già occupata da alcuni soldati russi che si stanno rifocillando e scaldando. Nonostante fuori italiani e russi non si stiano risparmiando colpi, gli uomini dentro l’isba smettono silenziosamente ogni ostilità e si trovano fratelli in un momento di pace provvisoria:
Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo 13.
Con una lingua chiara e precisa, priva di retorica 14, Mario Rigoni Stern ha raccontato la sofferenza e l’orrore di un’esperienza che ha portato gli uomini al limite delle loro capacità. Tuttavia, Rigoni Stern ha anche forza e la lucidità per fermarsi a osservare i rari momenti di bellezza che permettono di guardare ancora al futuro, indicando un barlume di speranza per tutti. Il sergente nella neve rimane così come una testimonianza storica di primaria importanza, ma anche come monito per l’umanità, affinché sappia riscoprire al fondo della propria coscienza quel sentimento di solidarietà e fratellanza 15 su cui solo può costruirsi una civiltà nuova.
1 Spiega il critico Giovanni Falaschi che il titolo originale doveva anzi essere Ricordi di Russia e che la scelta definitiva spettò a Vittorini, che era direttore di collana e che impose un titolo “polemico, antimilitarista” (G. Falaschi, “Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia” di Mario Rigoni Stern, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Il secondo Novecento, Le opere 1938-1961, Torino, Einaudi, 2007, p. 401) oltre a suggerire revisioni e modifiche del testo stesso.
2 Il genere della scrittura privata, diaristica e memoriale, è caratteristica del periodo del Neorealismo e si collega strettamente con i grandi (e drammatici) rivolgimenti della guerra mondiale. Anche se Il sergente nella neve non è organizzato come un diario vero e proprio (con date e giorni che scandiscono la narrazione), tuttavia ci sono alcune caratteristiche di quel tipo di scrittura, come ad esempio la coincidenza tra chi scrive e chi agisce sulla pagina.
3 Dopo il fallimento dell’Operazione Barbarossa lanciata da Hitler contro l’Unione Sovietica, gli italiani si trovarono a comporre gli schieramenti di retroguardia nella ritirata, esponendosi agli attacchi dell’Armata rossa e agli agguati dei partigiani russi.
4 Sempre Falaschi spiega che: “Nel Caposaldo si procede fra racconto sintetico di condizioni strutturali e permanenti della vita militare e puntualizzazione di particolari eventi memorabili. [...] La seconda parte è il racconto del viaggio disperato per sfuggire alla tenaglia russa, dove evidentemente si concentrano un narrato stringente dei fatti e impressioni certamente sovrapposte sugli stessi in un nesso indistinguibile, finché Rigoni perde il controllo anche della successione dei fatti” (G. Falaschi, “Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia” di Mario Rigoni Stern, cit., p. 408).
5 L’isba è il nome italianizzato di un caratteristico tipo di abitazione rustica russa (in russo izba, traslitterazione del cirillico изба), composta da un solo ambiente riscaldato da una grande stufa in muratura.
6 Non a caso, dall’edizione Einaudi del 1990, Il sergente nella neve verrà pubblicato insieme a un altro racconto dell’esperienza di Russia, Ritorno sul Don, che chiude idealmente la testimonianza di Rigoni Stern su quelle vicende.
7 Ovvero: “Sergente maggiore, arriveremo alla baita?”. La “baita”, nella prospettiva degli alpini, è ovviamente la “casa” natìa in Italia, vista come luogo protetto e sicuro in una situazione drammatica come quella della ritirata.
8 M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1990, p. 117.
9 Ivi, p. 106.
10 Ivi, p. 126.
11 Le perdite italiane, in quel solo giorno, furono ingenti: si calcolano circa 3000 soldati morti, catturati o feriti. Tra i partecipanti a quella battaglia che in seguito scrissero libri e romanzi sull’esperienza del fronte si possono ricordare Nuto Revelli (autore de La guerra dei poveri del 1962) e Giulio Bedeschi (che la racconterà in Centomila gavette di ghiaccio del 1963).
12 La campagna italiana di Russia, pur nella difficoltà di avere delle stime precise, è uno dei più gravi disastri militari del secondo conflitto mondiale, con circa 170mila unità tra morti e dispersi.
13 M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1990, p. 133. L’immagine di comunanza e di solidarietà all’interno dell’isba è rafforzata dalla presenza di un personaggio femminile, una giovane ragazza con il suo neonato.
14 G. Falaschi, “Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia” di Mario Rigoni Stern, cit., p. 416: “[...] i periodi sono brevi e predomina la paratassi. Altro indizio del realismo del testo sono i dialoghi elementari che derivano dal fatto che gli alpini parlano oggettivamente poco. Elementari quindi come forma, ma non come contenuto perché questo riguarda la vita e la morte”.
15 Ivi, pp. 416-417: “Il modo in cui Rigoni guarda ai russi è interno a un’ideologia del diritto fondativo della comunità umana. Non è solo il passo notissimo dell’improvvisa comparsa di Rigoni nell’isba a chiedere di mangiare quando vi si trovano soldati russi a tavola, ma in tutto il libro si leggono, poco evidenti ma di grande effetto, alcune straordinarie aperture verso i combattenti nemici per le quali il resoconto di guerra diventa romanzo, cioè invenzione delle reazioni dei personaggi”. Volendo fare un collegamento con altri testi, questo sentimento di comunanza con il nemico può ricordare le parole di Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano (ambientato proprio sull’altipiano di Asiago durante la Prima guerra mondiale) oppure con la lirica Fratelli di Ungaretti, in cui il poeta vede in alcuni commilitoni, al di là del loro grado militari, degli esseri umani fragile e disperati come lui.