Il primo romanzo di Alberto Moravia, Gli indifferenti, è stato scritto dall’autore durante la sua permanenza a Bressanone dopo il ricovero all’Istituto Codivilla di Cortina a causa della tubercolosi ossea di cui soffriva sin da bambino. Pubblicato nel 1929, è interamente ambientato in spazi chiusi, siano essi gli interni di una casa o di una città sotto la pioggia contemplata dai finestrini di un'automobile. Questa condizione di oppressione e di prigionia senza scampo che affligge anche gli spazi del romanzo è simbolo della vacuità e dell’inutilità della realtà e dell’incapacità dei protagonisti di appropriarsene e di modificarla. Moravia denuncia infatti, attraverso le pagine del suo romanzo d’esordio, l’incapacità di volere e di vivere autenticamente la realtà (l'indifferenza, appunto) propria della borghesia degli anni Trenta del Novecento, schiava dei valori del denaro e del sesso.
Simbolo della decadenza generale della società borghese è ne Gli indifferenti una famiglia composta dalla madre, Mariagrazia Ardengo, il suo amante, Leo, e i due figli, Carla e Michele. Questi ultimi sono totalmente incapaci di reagire alla condizione di fallimento economico e morale in cui versa la famiglia, e non riescono ad opporsi all’amante della madre, Leo, interessato ad impossessarsi della casa degli Ardengo e a sostituire la vecchia amante con la figlia di lei, ben più giovane e piacente. Un altro personaggio che torna nel racconto è Lisa, ex amante di Leo e amica di Mariagrazia, pervasa da un’insana passione per il giovane Michele, sul quale proietta il desiderio di una giovinezza ormai sfiorita da tempo. Leo a sua volta desidera ardentemente Carla, che infine gli si concede per vana ribellione verso gli schemi famigliari, finendo poi col sposarlo. Unendosi a lui in matrimonio non si rende conto di compiere il proprio destino di indifferente donna borghese, incarnando una "nuova" Mariagrazia e ricandendo nella medesima "indifferenza" etica che già caratterizza la madre. Michele, dal canto suo, cede alle lusinghe di Lisa, pur disprezzandola, e, con il proposito di vendicare la sorella, affronta Leo con un’arma scarica; l'incidente diventa simbolo della cronica incapacità di Michele di volere davvero qualcosa, e di agire di conseguenza.
Il romanzo si conclude allora con la scena emblematica di Mariagrazia e della figlia Carla che partecipano ad un ballo mascherato. La maschera, immobile e statica, esprime tutta l’indifferenza e l’apatia dei personaggi che la indossano; i personaggi del romanzo sono del tutto in balia degli eventi, incapaci di comprendere e di vivere la realtà, o di farsi artefici in qualche modo del proprio destino (come avveniva nel romanzo tradizionale). Quella che Moravia ci descrive oggettivamente (e senza alcuna partecipazione emotiva) è un’alienazione vitale intrecciata con un'altrettanto profonda incomunicabilità esistenziale. Le vicende narrate simboleggiano un rito d’iniziazione che ci mostra il passaggio dall’immaturità adolescenziale all’età adulta, e che si cristallizza nell’amara accettazione della realtà per quello che è, abbandonando la volontà (e la speranza) di un cambiamento. Carla è simbolo di un passaggio e di un adattamento totale e compiuto, e la maschera che indossa al ballo lo conferma in pieno. Michele, che in qualche modo incarna la moralità dell'autore, resta in uno stato d’immaturità adolescenziale e continua a perpetuare fallimentari tentativi di opporsi a Leo, non riuscendo ad adattarsi alla realtà. L'oggettività della narrazione si fonde, per esplicita volontà dell'autore, con la tecnica teatrale, su cui si reggono i molti dialoghi del romanzo.