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Manzoni, "Ognissanti": testo e analisi

Come si sa, l’intenzione di Manzoni con gli Inni sacri era quella di comporre un inno per ognuna delle solennità principali dell’anno liturgico, progetto che però, per vari motivi, non fu condotto a termine. All’interno di questo progetto si colloca l’inno Ognissanti, concepito nel 1830 e ripreso nel 1847, che Manzoni interruppe, insoddisfatto del risultato, alla quattordicesima strofa. Tuttavia l’autore nel 1859 fece dono alla scrittrice francese Louise Colet di quattro strofe dell’inno, quartine di novenari, tre piani e l’ultimo tronco, di cui consentì dunque la divulgazione. In una sua lettera alla scrittrice Manzoni stesso spiega che, con questo inno, egli intendeva “rispondere a coloro che chiedono qual merito si possa trovare nella virtù, sterile per la società, de’ pii solitari”. Tuttavia, attraverso questo tema, il testo risulta una specie di condensazione per simboli di un nucleo ideologico e spirituale che non solo sta al centro degli Inni sacri, ma attraversa tutta la produzione manzoniana, soprattutto per quanto attiene all’interrogazione intima più inquieta dell’autore, ed ai suoi aspetti più problematici che misero in luce quella sorta di vocazione al silenzio contro cui Manzoni sembra lottare nei suoi diversi scritti, fino a soccombervi. Innanzitutto in apertura "Lui", Dio, il quale è colto riflesso nelle creature vegetali, nella pura vitalità arborea, elementare e universale, rappresentata in una sorta di elencazione che sembra ripresentare l’idea della molteplicità delle creature come infinito riflesso dell’infinità divina entrata nel tempo della creazione. Compare però solo sotto l’aspetto di una vita appunto elementare, pura vitalità innocente che, se si esprime all’inizio in vegetali molteplici e differenti, dei quali però si coglie un apporto di utilità per l’uomo, culmina tuttavia nell’immagine di un "tacito fior", un fiore cioè ignorato da tutti, che nel silenzio ignoto adempie al proprio puro slancio di vita senza un scopo, su "inospite piagge", cioè terre disabitate, mosso dal "tremito d’aure selvagge", di cui è chiaramente in balia, nella sua solitudine e “inutilità”, per lo meno secondo la logica dello "sdegnoso" che potrà, dice il poeta, trovare un senso alla vita di quel "tacito fior" solo interrogando direttamente Dio. Si ha qui dunque l’immagine di una assoluta umiltà, contrapposta all’orgoglio conoscitivo dello sdegnoso, portatore di una mentalità utilitaristica, in linea con il pensiero della massa comune. Il fiore invece, nel suo silenzio e nella sua solitudine ignorata da ogni sguardo nutrito di orgoglio, spiega, con semplicità ed innocenza assolute, davanti al suo unico spettatore, Dio, la "pompa del ricco suo velo", lo splendore colorato della sua corolla, dona cioè e consuma tutto se stesso nell’esalare "gli olezzi del calice, ai deserti del cielo", ad un cielo vuoto quindi, dove nessuno coglie il sacrificio di quel dolce profumo e l’inutile bellezza di quei colori. E in questa totale offerta di sé, in questo sacrificio di profumi innalzati al cielo, "muor", ignorato e in solitudine, quasi come una ginestra leopardiana, senza però essere travolto, con i connessi toni quasi eroici, dalla catastrofe naturale, come accade a quella. Questo fiore muore, per così dire, ferialmente, annientato dalla comune trama dei giorni, in un giorno, appunto, qualunque.

 

Riportiamo qui quattro quartine del testo, rimasto allo stato di frammento:

 

[...]

 

A Lui che nell’erba del campo

la spiga vitale nascose,

il fil di tue vesti compose,

de’ farmachi i succhi temprò,


che il pino inflessibile agli austri,

che docile il salcio alla mano,

che il larice ai verni, e l’ontano

durevole all’acque creò;

 

A Quello domanda, o sdegnoso,

perché sull’inospite piagge,

al tremito d’aure selvagge,

fa sorgere il tacito fior,

 

che spiega davanti a Lui solo

la pompa del pinto suo velo,

che spande ai deserti del cielo

gli olezzi del calice, e muor.