In linea con la forte espressività di ritmi e suoni evidenziata nell’analisi della prima strofa, risultano le scelte lessicali delle prime quattro strofe de Il Natale di Manzoni.
Potentemente si impone l’immagine di apertura di un masso del quale si comunica immediatamente la separazione da un vertice. La lontananza da quel vertice è sottolineata dall’aggettivo "lunga" del verso successivo dove campeggia l’immagine dell’erta, di una salita cioè, a indicare un verso opposto rispetto alla direzione del masso separato dal vertice. Manzoni mette in campo un distacco da una condizione di elevatezza che comporterebbe lo sforzo di una "lunga erta montana" per essere recuperata, per poi comunicare subito l’impossibilità di una simile operazione attraverso l’immagine di un impeto che, abbandonato alla sua bruta potenza, determina una "rumorosa frana", cioè un ulteriore movimento di distacco colto qui nel suo aspetto di distruzione e rovina, come appunto suggerisce il termine frana. La violenza e la perentorietà della rappresentazione vengono ulteriormente sviluppate dall’aggettivo "scheggiato" del verso cinque, dal gerundio "precipitando", che giustifica i sostantivi "valle" e "fondo" in progressione temporale e spaziale, a sua volta funzionale a sancire la conclusione della caduta, come enunciano i verbi "batte" e "sta". Anche la sintassi della strofa è costruita sull’idea della caduta, con la separazione del soggetto masso dai verbi principali batte e sta: la separazione del soggetto dal verbo cioè, posti rispettivamente all’inizio ed alla fine della strofa, evoca la lunghezza e la profondità della caduta, scandita da una concatenazione irrefrenabile di momenti suggerita, tra l’altro, dall’enjambement collocato fra il primo ed il secondo verso ("vertice | di lunga erta") e da quello fra il terzo e il quarto ("impeto di rumorosa frana").
Alla descrizione della caduta contenuta nella prima strofa, segue nella seconda un’analisi dell’immutabile condizione conseguente alla frana dal vertice: cadde, immobile, giace costituiscono una serie di espressioni dove i verbi ribadiscono quanto descritto nella prima e l’aggettivo, sottolineato dall’enjambement con "giace", intensifica la condizione immutabile, assoluta del masso di cui è sottolineata appunto la massa inerte e pesante con l’espressione "lenta mole" del verso nove. La strofa aggiunge poi all’idea della caduta e dell’immobilità assoluta, un altro elemento associato all’immagine della cima, che si ricollega a quella di vertice del primo verso, e cioè l’idea dell’ombra, suggerita da quel sole che il masso, di per sé, non potrà più rivedere. Ma negli ultimi due versi della seconda strofa subentra una nuova idea che svela il significato analogico con cui deve essere inteso il quadro descritto nei versi precedenti: l’idea cioè della "virtude amica", improvvisamente introdotta all’interno di una ipotesi che presenta l’unica possibilità di poter riparare alla caduta ed all’abbandono della frana rappresentata. L’idea di una forza amica introduce infatti un tratto esplicitamente sentimentale, compartecipe, umano nel quadro “insensato” sin qui descritto e mostra così la possibilità di intendere, analogicamente, in senso morale il lessico usato nei versi precedenti. Gli ultimi due versi della seconda strofa inoltre anticipano lo sviluppo delle due strofe successive che, nella descrizione della condizione umana precedente all’Incarnazione del Cristo, contengono una serie di calcolate simmetrie con la scena di apertura. Nella terza strofa infatti si ripresentano, ma riferite alla condizione umana, le idee di caduta, precipitazione, pesantezza, immobilità, espresse da termini come "giaceva"; "imo"; "gravollo"; "più non potea levar". Nella quarta poi al vertice irraggiungibile della prima e al sole invisibile della seconda si sostituisce Il Santo inaccessibile, ed il fondo della valle si svela come il vincitore inferno. La quarta strofa si chiude dunque sulle immagini dell’inferno e della sua preda, cioè l’uomo, collocate nell’ultima proposizione interrogativa di una serie di tre esposte con estrema enfasi e concitazione, secondo una climax ascendente nella drammaticità e degradante nei contenuti, proprio secondo la dinamica presente già nella struttura della prima strofa.
Le prime quattro strofe, nella loro drammaticità ed icasticità analogica, costituiscono così un esempio illuminante dell’abbandono del petrarchismo operato da Manzoni negli Inni sacri.
Riportiamo i vv. 1-28 del Natale:
Qual masso che dal vertice
di lunga erta montana,
abbandonato all'impeto
di rumorosa frana,
per lo scheggiato calle
precipitando a valle,
batte sul fondo e sta;
Là dove cadde, immobile
giace in sua lenta mole;
né, per mutar di secoli,
fia che riveda il sole
della sua cima antica,
se una virtude amica
in alto nol trarrà:
Tal si giaceva il misero
figliol del fallo primo,
dal dì che un'ineffabile
ira promessa all'imo
d'ogni malor gravollo,
donde il superbo collo
più non potea levar.
Qual mai tra i nati all'odio,
quale era mai persona,
vhe al Santo inaccessibile
potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
la preda sua strappar?