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Orazio, “Odi” (III, 30), “Exegi monumentum”: traduzione e metrica

Introduzione

 

Il componimento, che significativamente è concepito nello stesso metro dell’ode proemiale Maecenas atavis edite regibus (Carmina 1,1), chiude l’edizione dei primi tre libri delle Odi, pubblicata da Orazio nel 23 a.C. La struttura è cadenzata dal ricorrere insistito alla prima persona: il poeta ricorda di aver compiuto (“exegi”, v. 1) un’opera duratura che gli anni non scalfiranno; egli infatti non morirà mai completamente (“non omnis moriar”, v. 6), ma crescerà (“crescam”, v. 8) fresco e giovane grazie alla lode che riceverà dai posteri fino a quando esisterà Roma. Sarà ricordato (dicar, v. 10) anche nella sua terra di origine come colui che, divenuto grande da umile che era (il padre di Orazio è un liberto, come ricorda il poeta stesso in Satire, 1,6), ha introdotto per primo (“princeps”, v. 13) tra i Latini la poesia lirica eolica. Solo dal v. 14 (“sume… Melpemone”) il poeta si rivolge al suo interlocutore: non si tratta però in questo caso di un essere umano, ma della Musa, invocata per di più alla fine del componimento, con uno stravolgimento del topos tradizionale che prevedeva che, in quanto fonte di ispirazione, venisse implorata all’inizio.

Il nucleo centrale dell’ode è naturalmente l’orgogliosa rivendicazione di aver introdotto per primo a Roma i modi tipici della lirica greca. Questa affermazione, pur amplificata dal tema del primus ego, molto caro agli antichi, è tuttavia condivisibile: è vero, infatti, che già Catullo compie degli esperimenti in tal senso, ma è sicuramente Orazio ad aprirsi a una pluralità di metri mai adoperati prima in latino e a recuperare ampiamente come modelli tanto i lirici arcaici (gli eolici Saffo e Alceo, ma anche Anacreonte  e Pindaro) quanto la lirica ellenistica, elaborando insomma un nuovo genere letterario.

Metrica: asclepiadei minori.

 

  1. Èxegì monumèntum 1 àere perènnius
  2. règalìque sitù 2 pýramidum àltius,
  3. quòd non ìmber edàx 3, nòn Aquilo ìmpotens
  4. pòssit dìruere àut ìnnumeràbilis
  5. ànnorùm seriès èt fuga tèmporum 4.
  6. Nòn omnìs moriàr mùltaque pàrs mei
  7. vìtabìt Libitìnam 5: ùsque ego pòstera
  8. crèscam làude recèns, dùm Capitolium
  9. scàndet cùm tacità vìrgine pòntifex 6.
  10. Dìcar quà 7 violèns òbstrepit Àufidus 8
  11. èt qua pàuper aquàe Dàunus 9 agrèstium
  12. règnavìt populòrum 10, ex hùmili pòtens
  13. prìnceps Àeoliùm càrmen ad Ìtalos
  14. dèduxìsse 11 modòs. Sùme supèrbiam
  15. quàesitàm meritìs èt mihi Dèlphica
  16. làuro cìnge volèns, Mèlpomenè 12, comam.
  1. Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo
  2. e più alto del regale sito delle piramidi, tale che
  3. né la pioggia corroditrice né l’Austro sfrenato
  4. potrebbero distruggerlo, né l’innumerabile serie
  5. degli anni e la fuga delle stagioni. Non morirò
  6. del tutto e anzi molta parte di me eviterà
  7. Libitina: continuamente io crescerò rinnovandomi
  8. nella gloria presso i posteri, finché il pontefice salirà
  9. con la vergine silenziosa al Campidoglio.
  10. Si dirà di me, laddove violento rumoreggia l’Ofanto
  11. e laddove povero di acqua Dauno regnò
  12. su popoli agresti, che io, [divenuto] da umile grande,
  13. per primo ho trasferito la poesia eolica nelle
  14. modulazioni italiche. Arrogati il vanto
  15. ottenuto grazie ai tuoi meriti e, o Melpemone,
  16. con l’alloro delfico cingi, benevola a me, la chioma.

 

1 monumentum: con questo termine si intende qualunque cosa serva a ricordare una persona o un evento; la radice è la stessa dei verbi dei verbi moneo, mones, monui, monitum, monere e memini).

2 situ: il termine è da intendere preferibilmente come “mole”, ma altri intendono “putridume”, come in un epigramma di Marziale (8,3,5).

3 edax: dalla radice del verbo edo, edis, edi, esum, edere  “mangiare”, significa “che corrode”, “che consuma”.

4 L’inizio dell’ode rievoca alcuni passi della lirica greca. Pindaro nelle Nemee (4,8) paragona la poesia a una stele di marmo; nelle Pitiche (6,5) proclama: “pronto un tesoro di inni è stato innalzato nella valle di Apollo splendida di ricchezze; questo né pioggia tempestosa […] né vento […] potrà spingere negli abissi del mare”. L’altra fonte è Simonide (fr. 5D, 5): “un tale funebre ammanto né la ruggine distruggerà né il tempo che tutto doma”.

5 Libitinam: Libitina è una divinità arcaica preposta al culto dei morti e ai funerali, poi epiteto di Venere. Per l’epicureo Orazio tutto muore, anche l’anima: l’unica forma di sopravvivenza che egli può concepire è dunque la fama.

6 Si fa qui riferimento a cerimonie in cui le vergini vestali e i pontefici salivano al Campidoglio in processione. Orazio lega la propria fama alla sopravvivenza di Roma stessa: un modo simile per esprimere l’eternità dell’Urbe si ha anche nell’Eneide virgiliana (IX, 446-449), in un’apostrofe a Eurialo e Niso (“Fortunati entrambi! Se qualcosa possono i miei versi, nessun giorno mai vi ricorderà al ricordo del tempo futuro, fino a quando la casa di Enea dominerà l’immobile rupe del Campidoglio e il padre romano avrà l’impero”).

7 qua: propriamente avverbio relativo di moto per luogo, che va tradotto in questo caso con “laddove”.

8 Aufidus: L’Ofanto è il fiume più importante della Puglia, terra natia di Orazio. Con questo riferimento autobiografico viene introdotto il tema della patria: molti poeti augustei, che pure sono perfettamente immersi nella vita della capitale, mantengono un affetto particolare per la loro terra.

9 Daunus: Dauno è un mitico re apulo, il cui nome significa “povero d’acqua” perché governava su una regione spesso colpita da siccità.

10 Il genitivo retto da un verbo di comando è un grecismo.

11 Il verbo deduco può essere reso anche con “elaborare con cura” (come nelle Satire 2, 1, 4). Inoltre è verbo tecnico della fondazione di colonie (quasi che Orazio colonizzasse Roma con la poesia eolica) e della sfilata dei nemici catturati durante le cerimonie di trionfo (c’è quindi sottintesa l’idea di conquista di un genere letterario greco?).

12 Melpomene è qui ricordata come Musa generica che incorona la fronte del poeta con l’alloro di Apollo delfico, dio della poesia. Per la precisione, Melpomene è la Musa della tragedia.