Un mito nella Repubblica di Platone: l'anello di Gige.
Non solo la Repubblica rappresenta nella sua struttura complessiva un mito, il mito della città ideale, ma si affida a diversi miti nel corso di questo dialogo. Tra i miti della Repubblica tralascerò il celebre mito della caverna, dove appare la figura dell’uomo nella caverna che riesce a liberarsi delle catene a differenza dei suoi compagni e approda alla vera conoscenza con la contemplazione il Sole, figura dell’idea del Bene. Mi soffermo invece su un altro mito, quello dell’anello di Gige in riferimento al dibattito sul valore della giustizia e della morale. Nel secondo libro della Repubblica è Glaucone a parlare del mito dell’anello di Gige, rielaborando quanto raccontato da Erodoto: si tratta di Gige, antenato del re di Lidia Creso, un bovaro al servizio del re di Lidia Candaule. Dopo un terremoto nella montagna dove pascolava le sue capre, si aprì una voragine nel terreno e Gige, incuriosito, la esplorò scoprendovi un enorme cavallo di bronzo nel quale si trovava il cadavere di un soldato con un bellissimo anello d’oro di cui si impossessò. Uscito dalla voragine, si accorse che girando la pietra nella incavatura dell’anello (il "castone"), Gige diventava invisibile a chiunque. Così si recò al palazzo del re per dar notizie delle sue greggi, e con il potere dell’anello, sedusse la moglie di Candaule e con il suo aiuto lo uccise, divenendo re al suo posto. Glaucone cita il mito per dimostrare che nessuno, se c’è l’opportunità di non essere scoperto, evita di compiere azioni illegittime e criminali, una volta eliminato il rischio che qualcuno possa vedere le tue azioni, per cui se l’anello fosse dato a persona giustissima o empia, i comportamenti sarebbero gli stessi. Dunque: la tesi è che la morale è una costruzione sociale vincolante, di cui, potendone fare a meno, non si rispettano nè leggi nè convenzioni sociali. Spiega il suo punto di vista Glaucone: "Dicono dunque che, secondo natura, commettere ingiustizia è bene, mentre è male subirla, e dicono che c’è più male nell’essere vittima di un’ingiustizia, di quanto sia il bene nel commetterla; cosicchè, facendo e subendo reciprocamente ingiustizia, coloro che non sono in grado di fuggire il male o di ottenere il bene, considerano vantaggioso scendere al compromesso per il quale l’ingiustizia non deve essere fatta, nè subita. Ed è così che cominciarono a stabilire leggi e patti, e chiamarono legittimo e giusto ciò che è prescritto dalla legge" (Repubblica, 358 e-359a°) . Quindi, bene e male sono valori relativi, capovolgibili e la giustizia non è vera virtù, ma solo la messa in atto di un compromesso. A questo punto dialogando con Adimanto Socrate compie la mossa teorica decisiva spostando il terreno di analisi sulla giustizia con una argomentazione stringente: "La gente che non ha buona vista legge meglio le lettere scritte a caratteri più grandi che a caratteri più piccoli, e siccome c’è la giustizia per un singolo individuo e per la polis, se una città è più grande di un individuo, nel campo più grande ci sarà una più grande giustizia e più facile da apprendere, per poi applicare all’individuo singolo la conformità con il modello più grande." Quindi il valore della giustizia va individuato in quanto si lega al buon funzionamento della polis come l’ambito del perseguimento del bene comune ed è questo fine che ne legittima il valore. La giustizia è necessaria in quanto promuove l’armonia collaborativa del gruppi sociali, l’unità e la prosperità dello Stato, cioè il Bene, il vertice di tutta la teoria delle idee. Con questi argomenti Socrate porta a soluzione il problema della giustizia. Infine, una ultima domanda: Chi è in grado di applicare la giustizia nella polis per perseguire il bene comune? Il governante che pratica la saggezza, ovvero il filosofo che pratica la saggezza in quanto conosce il bene ( vedi il mito della caverna). In Repubblica V: "Se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia…è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano". Ma per diventare governanti la trafila era durissima: istruzione comune con gli altri giovani fino a 17 anni, poi per gli idonei 3 anni di ginnastica, 10 anni di scienze matematiche (aritmetica, geometria, astronomia e musica), poi 5 anni di dialettica ( cioè la filosofia, che è scienza delle idee), a 35 anni lungo tirocinio in mansioni amministrative dello stato, a 50 anni, superate con esito favorevole tutte le fasi preparatorie a turno governanti e filosofi nel tempo libero).
Franco Sarcinelli, docente di Storia e Filosofia nei Licei milanesi, si è occupato in vari saggi di temi di epistemologia delle scienze umane e storiche, di fenomenologia e di ermeneutica. Tra i suoi volumi ha pubblicato per Mimesis "Filosofia della mancanza" (2007) ed è nel comitato di redazione di "Fenomenologia e società". Da due anni è invitato ad intervenire alle International Conferences on Ricoeur Studies per i suoi approfondimenti sul pensiero del filosofo Paul Ricoeur.
Video su Mito e filosofia
Relatori