Nelle sue opere più note e apprezzate (in particolare Myricae, i Canti di Castelvecchio, i Primi e Nuovi Poemetti) Giovanni Pascoli ha saputo elaborare un linguaggio in versi teso alla rappresentazione di una natura umile e quotidiana. Ne sono scaturire poesie dal carattere mimetico-descrittivo dotate di un tono domestico e familiare, e depurate dai temi ideologici, storici e morali, così cari invece alla tradizione romantica, fino a Carducci.
In tal senso, un noto critico, Gianfranco Contini, ha indicato nell’equilibrio tra "linguaggio grammaticale", "pre-grammaticale" e "post-grammaticale" il fondamento della poesia pascoliana: con quest’ultimo, quello dei gerghi tecnici e delle lingue speciali, Pascoli, che fatto ampio ricorso in particolare a termini della botanica e dei lavori agricoli, si è mostrato in sintonia con il preziosismo nomenclatorio del Decadentismo. Innestando sulla lingua comune (la "grammaticale") quella "pre-grammaticale" – fatta per lo più di onomatopee e interiezioni – ha compiuto un’operazione di notevole originalità. Va anche segnalato, come ha fatto un altro autorevole critico, Luigi Baldacci, che la trasposizione nel dominio della poesia di ciò che è mimesi fonica di suoni della realtà - vale a dire i pascoliani "videvitt, trr trr terit tirit" - non sono accostabili allo "Zang Tumb Tumb di Marinetti". A differenza dei futuristi, che pure erano suoi contemporanei, le innovazioni di Pascoli non hanno significato un’eretica volontà di rottura, ma sono state piuttosto un'unione di tradizione e cambiamento, di continuità e innovazione.
Questo connubio è ben percepibile anche se ci rivolgiamo ai punti di riferimento letterari di Pascoli. Da una parte i suoi autori prediletti sono grandi classici come Omero, Virgilio, Dante e Leopardi, dei quali recupera numerosi voci, sintagmi, motivi, arrivando perfino a realizzare veri e propri calchi. Dall’altra parte, alla base della poesia pascoliana si trova la tradizione dei canti e delle narrazioni popolari, affatto ignota alla linea letteraria alta e monolinguistica tipicamente italiana, nella quale lo stesso Pascoli si inserisce. La carriera di Giovanni Pascoli “poeta della natura” è allora quasi interamente giocata sulla fusione, con gradazioni di volta in volta diverse, di realtà e sogno, di oggettività e soggettività. In una prima fase, fin verso la metà degli anni Novanta dell’Ottocento, Pascoli ha insistito sul primo polo di queste dicotomie, per poi tendere sul secondo nel momento del suo maggiore avvicinamento al simbolismo. Nella fase d’esordio il suo modello principale era ovviamente Giosuè Carducci, suo maestro all’Università di Bologna: si tratta ovviamente del Carducci cantore del paesaggio maremmano e del rapporto panico con la Natura. Tra i suoi contemporanei Pascoli non poteva eludere il confronto con lo scrittore che allora godeva il maggiore successo, Gabriele D’Annunzio, a sua volta esempio eccellente di precisione nomenclatoria in ambito naturalistico e soprattutto prototipo di resa in versi del cosiddetto panismo.
Ma Pascoli mantiene una propria specificità anche nel rapporto con questi ingombranti punti di riferimento: i suoi testi (eccezion fatta per quelli “impegnati” degli ultimi anni) non sono mai compromessi, a differenza di quelli di Carducci, da alcuna tensione oratoria. E la tonalità smorzata tipica delle sue poesie ha davvero poco in comune con le immagini e i toni schietti e reboanti di D’Annunzio. Nella prima fase della sua carriera Pascoli ha dunque messo a punto un impressionismo descrittivo di ascendenza carducciana e dannunziana, ma senza cedimenti retorici o calligrafici. Nel corso degli anni Novanta del secolo XIX i componimenti pascoliani hanno assunto tratti sempre più immaginosi e sfumati, con la progressiva tendenza a risolvere in musica le immagini e a prediligere i testi brevi – quasi fossero flash figurativi e musicali – piuttosto che articolati discorsi in versi. Un soggettivismo allusivo e visionario si accosta e lentamente soppianta il naturalismo di partenza. È tangibile, insomma, l’influenza del simbolismo francese, ai cui estremi di ambiguità semantica, astrattezza e allusività fonica (si pensi a Stéphane Mallarmé) Pascoli tuttavia non si spingerà mai.
Un’ulteriore testimonianza del graduale infiltrarsi della poetica simbolista nel lavoro di Pascoli è offerta dal caposaldo della sua poetica, Il fanciullino, fondamentale saggio del 1897 in cui il poeta ha delineato i principi cardine della propria concezione della letteratura. Il fulcro del discorso è appunto la figura del “fanciullino”, incarnazione della capacità, tipica dei poeti, di penetrare con l’intuizione, e non con la speculazione intellettuale, nella verità del mondo. Il poeta è dunque colui che sa rivivere la spontaneità dell’infanzia, cogliendo le emozionanti scoperte che si annidano in ogni momento della vita. Dalla fanciullezza dell’uomo a quella - metaforica - del genere umano il passo è breve. Nel Fanciullino troviamo anche una precisa idea circa la nascita della poesia, considerata lo strumento attraverso cui l’uomo ha imitato le voci della natura e ricreato "il meraviglioso mormorio che lo circondava" (sono parole di Pascoli, nell'Introduzione a Lyra, un'antologia di testi per le scuole superiori). In questa prospettiva il fonosimbolismo pascoliano (quello che Contini definiva "linguaggio pre-grammaticale") non sarebbe altro che il tentativo di recuperare le intuizioni sonore dei primi poeti. La poesia diventa così un mezzo attraverso cui è possibile ristabilire la comunione perduta con il reale. Ci troviamo nel bel mezzo della poetica simbolista delle “corrispondenze”, così come è espressa nel celebre sonetto di Charles Baudelaire intitolato appunto Correspondances. Ne deriva, da un lato, una funzione altissima attribuita alla poesia, trasfigurata in una sorta di surrogato della religione, e dall’altra una posizione almeno idealmente privilegiata del poeta nel consorzio umano, essendo il suo sguardo sulle cose dotato di una profondità e di una forza rivelatrice sconosciuta alle persone comuni.
Ma non mancano i punti di distanza tra Pascoli e il movimento simbolista. Ne citeremo uno soltanto, a proposito del ruolo del poeta nella società. Se lo scrittore veggente dei simbolisti era un emarginato chiuso nel proprio individualismo, spinto ai margini di una realtà che non lo sapeva accettare e che a sua volta rifiutava, in Pascoli è invece rimasta viva una sorta di ipoteca romantica: vale a dire la convinzione secondo cui il poeta può essere maestro e guida della collettività. È il cosiddetto mito del “poeta vate”, investito di un compito civile e morale. Nella seconda parte della carriera di Pascoli sono numerosi gli interventi di stampo politico e ideologico: è la fase delle raccolte poetiche di argomento storico-civile che rispolverano eloquenti istanze pedagogiche di matrice carducciana: Odi e Inni (1906) o Poemi italici (1911), nonché del discorso La grande proletaria si è mossa tenuto nel 1912.
Bibliografia essenziale:
- G. Contini, Il linguaggio di Pascoli (1955), in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970.
- G. Pascoli, Poesie, a cura di L. Baldacci, Milano, Garzanti, 1974.
- M. Pazzaglia, Pascoli, Salerno, Roma, 2002.