Dopo Gli indifferenti del 1929 (e con l’importante “tappa” di Agostino nel periodo bellico), La romana, romanzo pubblicato nel 1947, è uno dei grandi successi (di critica e di pubblico) di Alberto Moravia.
La vicenda, narrata dalla protagonista Adriana in prima persona, è quella di una bella e giovane popolana (“A sedici anni ero una vera bellezza. Avevo il viso di un ovale perfetto, stretto alle tempie e un po’ largo in basso, gli occhi lunghi, grandi e dolci, il naso dritto in una sola linea con la fronte, la bocca grande, con le labbra belle, rosse e carnose e, se ridevo, mostravo denti regolari e molto bianchi. La mamma diceva che sembravo una madonna”; questa la descrizione che apre il romanzo) che, su consiglio della madre, la quale sogna di uscire dalla propria condizione di miseria, inizia la carriera di modella per alcuni pittori di bassa lega. Adriana entra così in contatto con un mondo mediocre ed ipocrita, che Moravia dipinge con quello stile asciutto e quasi “impassibile” che già aveva utilizzato nel primo romanzo: la protagonista si innamora di Gino, un autista che la seduce fingendosi celibe, e frequenta la collega Gisella, che la invita a farsi mantenere (come fa lei) da uomini ricchi e facoltosi. Entra poi in scena Astarita, un funzionario fascista che prima seduce, con la complicità della corrotta Gisella, Adriana e poi ne fa la propria accompagnatrice, svelandole la verità sulla situazione matrimoniale di Gino.
Il triangolo amoroso, proprio per l’ingenua “bontà” che caratterizza Adriana e, al tempo stesso, per la sua progressiva assuefazione al mondo in cui vive, prosegue: la protagonista, avviatasi sulla strada della prostituzione e riallacciati i rapporti con Gino, la protagonista compie un furto nella casa dei padroni dell’amante. La restituzione della refurtiva (che aveva portato all’incriminazione di una cameriera innocente) diventa per Gino l’occasione di far soldi con il ricettattore Sonzogno, che di lì a poco, eliminato Gino, diventa il nuovo e violento amante della donna. Nel mentre, entra in scena Mino, un giovane studente di Legge di idee antifasciste, che rappresenta il prototipo moraviano dell’intellettuale, dopo il Michele Ardengo de Gli indifferenti. Adriana, incinta di Sonzogno, ricercato dalla polizia e dallo stesso Astarita, fa credere a Mino (cui si affeziona, e di cui rispetta gli ideali, benché questi sembrino sempre irreali ed improduttivi) che il nascituro sia suo. Incarcerato per motivi politici, Mino svela però i nomi dei compagni cospiratori; Adriana, su intercessione di Astarita, lo fa rilasciare, ma il rimorso spinge il giovane al suicidio. Sonzogno, in fuga, uccide Astarita ma poi cade in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine: Adriana, rimasta sola in attesa del figlio che Mino, in una lettera, ha legalmente riconosciuto, può forse sperare in un futuro migliore.
La romana, sviluppando temi a lungo presenti nella scrittura moraviana, pone allora sotto accusa, con un tono sospeso tra riproduzione realistica ed indagine di stampo esistenziale, la corruzione, o meglio l’inautenticità di valori del mondo borghese: il binomio sesso-potere, che accompagna quasi tutta la “carriera” di Adriana e che ricomparirà anche ne La noia, è allora l’elemento centrale per la diagnosi moraviana, filtrata però attraverso le parole e i pensieri di una semplice popolana, che, nel finale, può concedersi una riflessione riassuntiva sulla propria esperienza di vita:
Pensai a Mino e poi pensai a mio figlio. Pensai che sarebbe nato da un assassino e da una prostituta; ma a tutti gli uomini può capitare di uccidere e a tutte le donne di darsi per danaro; e ciò che più importava era che nascesse bene e che crescesse sano e vigoroso. E decisi che se fosse stato un maschio l’avrei chiamato Giacomo in ricordo di Mino. Ma se fosse stata femmina, l’avrei chiamata Letizia, perché volevo che, a differenza di me, avesse una vita allegra e felice ed ero sicura che, con l’aiuto della famiglia di Mino, l’avrebbe avuta.