Il ruolo “pubblico” di Gabriele D’Annunzio, già confermato dall’abilità con cui lo scrittore alterna e combina romanzo, scrittura in versi e attività teatrale, giunge al suo culmine negli anni che precedono il primo conflitto mondiale. Trasferitosi in Francia nel 1910 per sfuggire ai creditori che lo assillavano per gli enormi debiti contratti per mantenere uno stile di vita signorile e nobiliare alla “Capponcina”, D’Annunzio conferma anche oltralpe la sua fama e il suo successo di scrittore (l’opera teatrale Le martyre de Saint Sébastien è del 1911), ma sfrutta ancor meglio i canali della moderna comunicazione letteraria.
Quando infatti, dopo l’estate del 1914, soffiano in Europa i venti della futura guerra, lo scrittore, che ha già pubblicato le Canzoni delle gesta d’oltremare sui conflitti con la Libia e la Turchia, progetta i Canti della guerra latina, a sostegno di quelle fazioni che premevano per un intervento diretto dell’Italia nella guerra contro l’Impero austro-ungarico. L’operazione propagandistica procede a braccetto con «Il Corriere» e con il suo direttore, Luigi Albertini, fomentando i toni antitedeschi e spostando l’orientamento dell’opinione pubblica, prevalentemente neutrale, verso l’ingresso nel conflitto. Nel maggio del 1915, in quelle che saranno ricordate come le “radiose giornate” del fronte interventista, D’Annunzio ritorna in patria, tenendo una serie di accorate orazioni pubbliche che da Ventimiglia lo porta a Roma, dove il Vate terrà un discorso in Campidoglio. Dopo la dichiarazione ufficiale di ostilità, D’Annunzio si arruola in aviazione e, nel gennaio del 1916, ha un grave incidente durante un atterraggio di fortuna: la ferita all’occhio destro, che comporta una lunga degenza e la forzata cecità per alcuni mesi, sono la suggestione da cui il poeta parte per comporre, rielaborando anche materiale già esistente, il Notturno, vertice del lirismo simbolista dannunziano che vedrà la luce nel 1921. Una volta guarito, D’Annunzio si dedica ad imprese eroiche: la “beffa di Buccari” del febbraio del 1918 vede lo scrittore penetrare con alcuni sommozzatori nel golfo di Fiume, controllato dagli austriaci, mentre pochi mesi dopo egli sorvolerà Vienna in aereo, spargendo volantini inneggianti all’imminente successo delle forze italiane.
Eppure, le trattative di pace condotte da Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino non soddisfano le aspettative dannunziane; in particolare sono la città di Fiume, a maggioranza italiana, e la regione della Dalmazia (promessa all’Italia negli accordi segreti prima del suo ingresso in guerra dalle forze del Patto di Londra) a costituire la pietra dello scandalo, e a far coniare al poeta la celebre espressione di “vittoria mutilata”. Così, verso la fine delll’agosto del 1919 (dopo aver pubblicato un articolo intitolato Disobbedisco contro il capo del Governo Francesco Saverio Nitti) D’Annunzio si pone a capo di più di duemila volontari e reduci del conflitto (e con il sostegno di larga parte dell’esercito regolare) ed occupa la città. Qui il poeta dà vita, contro l’aperta ostilità del governo italiano, che impone l’embargo alla città-stato, ad un esperimento politico in cui si riassumono ispirazioni corporative, suggestioni letterarie e il fascino personale del “Comandante” (come D’Annunzio stesso si farà soprannominare), che conia una serie di motti e un atteggiamento propagandistico su cui a breve il fascismo attecchirà rapidamente. A chiudere l’esperienza fiumana saranno poi il Trattato di Rapallo (novembre 1920), che dichiara Fiume città libera e, nei giorni di Natale dello stesso anno, l’intervento militare che costringe i volontari e lo stesso Vate ad abbandonare la città nel gennaio del 1921.