Introduzione
Il componimento poetico La salubrità dell’aria viene redatto da Giuseppe Parini nel 1759 (e successivamente inserito nella prima edizione delle Odi nel 1791) in occasione di una riunione accademica dei Trasformati, il gruppo di intellettuali lombardi (tra cui Cesare Beccaria, Giuseppe Baretti e Pietro Verri) cui Parini aderisce nel 1753. Il tema proposto è quello dell’aria, che il poeta sviluppa all’insegna di uno spiccato impegno civile e morale, lanciando un appello “ecologico” agli abitanti di Milano per sostenere la necessità del miglioramento delle condizioni ambientali della città. Parini tratta quindi un argomento di stringente attualità mediante uno stile intriso di realismo e, al tempo stesso, di suggestioni classiche.
L’ode, collegata ad altre di tematica affine 1, si apre con un’invocazione della campagna circostante Bosisio e il lago di Pusiano. Tuttavia, la celebrazione dell’ambiente bucolico è svincolata dal manierismo arcadico, anche grazie alla precisa collocazione brianzola e al ricordo autobiografico: Parini individua nelle terre della sua infanzia un mondo protetto e felice rispetto alle insidie della città, dovute soprattutto all’inquinamento e all’incuria dei cittadini milanesi.
Dal confronto città-campagna emerge quindi una nuova poetica, che nell’explicit del testo rimanda al principio oraziano dell’Ars poetica del miscere utile dulci. Quello dell’autore non vuole essere un mero diveritmenot letterario, ma propone un messaggio civile, chiaro e recepibile: il miglioramento della qualità della vita collettiva parte dall’impegno concreto di ciascuno nella vita di tutti i giorni (vv. 115-130).
L’impegno civile di Giuseppe Parini
Come detto, l’ode su La salubrità dell’aria è di impostazione argomentativa prettamente civile. Parini elabora qui le tematiche illuministiche diffuse nel gruppo dei Trasformati e per queste sceglie uno stile alto e letterario, che si adatta al contenuto realistico dell’ode e al messaggio etico del poeta. La lingua pariniana - vicina qui a pagine de Il Giorno come quella del risveglio del Giovin signore - è costellata di latinismi, termini colti e tecnicismi, mentre la sintassi, prevalentemente ipotattica, si arricchisce di iperbati ed enjambements che rompono il ritmo rapido dei settenari piani e il gioco delle rime alternate e baciate. La strategia è insomma quella di servirsi di uno stile nobile per trattare argomenti “bassi” e spesso disgustosi (come nella descrizione della pratica di rovesciare le latrine in strada o nella raffigurazione dei cadaveri degli animali in decomposizione).
L’obiettivo del poeta è dunque quella di farsi voce critica contro la nobiltà e la classe dirigente, inadatta ed incapace di provvedere al bene comune ed interessata solo ai propri profitti privati, derivanti ad esempio dalla coltivazione delle marcite o delle risaie nei pressi della città. La tematica dell’aria, attraverso lo strumento della poesia, diventa così una questione di responsabilità civile e sociale che coinvolge tutti.
Metro: ventidue strofe di settenari con schema di rime ababcc.
- Oh beato terreno
- del vago Eupili 2 mio,
- ecco al fin nel tuo seno
- m’accogli; e del natìo
- aere mi circondi;
- e il petto avido inondi 3.
- Già nel polmon capace 4
- urta sé stesso e scende
- quest’etere vivace,
- che gli egri spirti accende,
- e le forze rintegra,
- e l’animo rallegra.
- Però ch’austro scortese 5
- quì suoi vapor non mena:
- e guarda il bel paese
- alta di monti 6schiena,
- cui sormontar non vale
- borea con rigid’ale 7.
- Né quì giaccion paludi,
- che dall’impuro letto
- mandino a i capi ignudi
- nuvol di morbi infetto 8:
- e il meriggio a’ bei colli
- asciuga i dorsi molli.
- Pera colui che primo
- a le triste ozïose
- acque e al fetido limo 9
- la mia cittade espose;
- e per lucro ebbe a vile
- la salute civile.
- Certo colui del fiume
- di Stige 10 ora s’impaccia
- tra l’orribil bitume,
- onde alzando la faccia
- bestemmia il fango e l’acque,
- che radunar gli piacque.
- Mira 11 dipinti in viso
- di mortali pallori
- entro al mal nato riso
- i languenti cultori;
- e trema o cittadino,
- che a te il soffri vicino.
- Io de’ miei colli ameni
- nel bel clima innocente
- passerò i dì sereni
- tra la beata gente,
- che di fatiche onusta 12
- è vegeta e robusta.
- Quì con la mente sgombra,
- di pure linfe asterso,
- sotto ad una fresc’ombra
- celebrerò col verso
- i villan vispi e sciolti
- sparsi per li ricolti;
- E i membri non mai stanchi
- dietro al crescente pane 13;
- e i baldanzosi fianchi
- de le ardite villane;
- e il bel volto giocondo
- fra il bruno e il rubicondo,
- dicendo: Oh fortunate
- genti, che in dolci tempre
- quest’aura respirate
- rotta e purgata sempre
- da venti fuggitivi
- e da limpidi rivi.
- Ben larga ancor natura
- fu a la città superba
- di cielo e d’aria pura:
- ma chi i bei doni or serba
- fra il lusso e l’avarizia 14
- e la stolta pigrizia?
- Ahi non bastò che intorno
- putridi stagni avesse;
- anzi a turbarne il giorno
- sotto a le mura stesse
- trasse gli scelerati
- rivi a marcir su i prati 15
- E la comun salute
- sagrificossi al pasto
- d’ambizïose mute,
- che poi con crudo fasto
- calchin per l’ampie strade
- il popolo che cade 16.
- A voi il timo e il croco
- e la menta selvaggia
- l’aere per ogni loco
- de’ varj atomi irraggia,
- che con soavi e cari
- sensi pungon le nari.
- Ma al piè de’ gran palagi
- là il fimo alto fermenta 17;
- e di sali malvagi
- ammorba l’aria lenta 18,
- che a stagnar si rimase
- tra le sublimi case.
- Quivi i lari 19 plebei
- da le spregiate crete
- d’umor fracidi e rei
- versan fonti indiscrete;
- onde il vapor s’aggira;
- e col fiato s’inspira.
- Spenti animai, ridotti
- per le frequenti 20 vie,
- de gli aliti corrotti
- empion l’estivo die:
- spettacolo deforme
- del cittadin su l’orme 21!
- Né a pena cadde il sole
- che vaganti latrine 22
- con spalancate gole
- lustran ogni confine
- de la città, che desta
- beve l’aura molesta.
- Gridan le leggi è vero;
- e Temi 23 bieco guata:
- ma sol di sè pensiero
- ha l’inerzia privata.
- Stolto! E mirar non vuoi
- ne’ comun danni i tuoi? 24
- Ma dove ahi corro e vago
- lontano da le belle
- colline e dal bel lago
- e dalle villanelle,
- a cui sì vivo e schietto
- aere ondeggiar fa il petto?
- Va per negletta via
- ognor l’util cercando
- la calda fantasìa,
- che sol felice è quando
- l’utile unir può al vanto
- di lusinghevol canto 25.
- Oh terra felice
- del mio ameno lago di Pusiano,
- ecco che infine mi accogli nel tuo abbraccio;
- e con l’aria del luogo natale
- mi avvolgi; e riempi
- il petto desideroso di aria pura.
- Già nel polmone che si dilata
- va incontro all’aria già contenuta e scende,
- quest’aria tonificante,
- che guarisce gli spiriti malati,
- e rinvigorisce le forze,
- e rallegra l’animo.
- Perché lo scirocco nocivo
- non porta qui la sua brezza;
- e protegge il bel paese
- un’alta catena di monti,
- che la tramontana, con la sua corrente gelida,
- non riesce a valicare.
- Né qui stagnano paludi,
- che dal fondo limaccioso
- mandano verso le vette non protette
- una nebbia infetta di malattie:
- e il sole di mezzogiorno asciuga
- i dorsi bagnati di rugiada dei bei colli.
- Muoia colui che per primo
- espose Milano
- alle infide acque stagnanti
- e al fango maleodorante;
- e per guadagno disprezzò
- la salute dei cittadini.
- Sicuramente costui ora è invischiato
- nell’orribile fango
- del fiume Stige,
- dal quale sollevando il viso
- maledice il fango e le acque,
- che gli piacque raccogliere.
- Guarda i coltivatori contaminati,
- segnati in viso
- dal pallore mortale
- in mezzo al riso maledetto;
- e trema, o cittadino,
- perché sopporti di averlo vicino.
- Io nel bel clima privo di pericoli
- delle serene colline
- passerò giorni sereni
- tra la gente felice,
- che, pur gravata di fatiche,
- è sana e robusta.
- Qui con la mente libera,
- ritemprato in acque limpide,
- sotto una fresca ombra,
- celebrerò con i versi
- i contadini vivaci e agili
- sparsi per i campi;
- E le braccia mai stanche
- dietro al grano che amtura;
- e i fianchi robusti
- delle spavalde contadine;
- e il bel volto allegro
- tra l’abbronzato e il rossastro,
- Dicendo: “O genti fortunate,
- che in un clima mite
- respirate quest’aria
- sempre messa in moto e purificata
- da venti passeggeri
- e da limpidi ruscelli”.
- Ben prodiga fu la natura
- anche verso la grandiosa città,
- pura nel cielo e nell’aria:
- ma chi conserva ora i bei doni
- fra il lusso e l’avidità
- e la stupida inettitudine?
- Ahi, non bastò che intorno
- avesse putridi stagni;
- anzi a rovinare la propria atmosfera
- Milano condusse sotto alle sue
- stesse mura i maledetti
- canali per irrigare i campi.
- E la salute comune
- venne sacrificata per il foraggio
- di lussuose pariglie di cavalli,
- che poi con crudele superbia
- calpestano per le ampie strade
- il popolo che non si regge in piedi.
- A voi il timo e il croco
- e la menta selvatica
- per ogni luogo riempiono
- l’aria di vari profumi,
- che con dolci e gradevoli
- sensazioni sollecitano le narici.
- Ma ai piedi dei grandi palazzi
- imputriscono alti mucchi di letame;
- e di esalazioni nocive
- ammorba l’aria immobile,
- che rimane a stagnare
- tra le alte case.
- Qui i popolani
- da vasi di poco valore
- rovesciano senza rispetto
- liquidi maleodoranti e nocivi;
- dai quali si esala il fetore;
- e viene inalato respirando.
- Animali morti, abbandonati
- per le vie affollate,
- riempiono l’aria estiva
- di esalazioni malsane:
- spettacolo ripugnante
- per il cittadino che sta camminando!
- E appena cala la sera
- i carri dei rifiuti
- con le coperture aperte
- percorrono ogni strada
- della città, che sveglia
- respira l’aria nauseabonda.
- Le leggi lo vietano,è vero;
- e Temi osserva severamente:
- ma l’indifferenza dei singoli
- ha pensiero solo di se stessa.
- Sciocco! E non vuoi vedere
- nei danni collettivi anche i tuoi?
- Ahi, ma dove corro ed erro
- lontano dalle belle
- colline e dal bel lago
- e dalle contadinelle,
- alle quali l’aria così viva e pura
- fa ondeggiare il petto?
- Va per una via trascurata
- cercando sempre l’utile sociale
- la mia appassionata ispirazione,
- che è felice soltanto quando
- può congiungere l’utilità al diletto
- di un canto che dà speranza.
1 come La vita rustica (1757) sui benefici della vita campestre; L’innesto del vaiuolo (1765), sulle innovazioni nel campo della profilassi medica; Il bisogno (1766), sulla riforma legislativa che prevenga anziché punire i crimini; La musica, contro la pratica di evirare i giovani cantanti lirici.
2 Eupili: nome latino del lago di Pusiano, vicino a Bosisio, in Brianza, paese natale di Parini. Il toponimo è usato anche nella prima raccolta poetica dell’autore, Alcune poesie di Ripano Eupilino, del 1752.
3 L’ode si apre su un tipico scenario bucolico, caro alla poesia arcadica, che ha tutti i tratti del locus amoenus della tradizione classica (quale, ad esempio, quello delle Bucoliche di Virgilio).
4 capace: l’aggettivo è scelto perché dà l’idea della dilatazione del polmone quando si inspira l’aria; la campagna è quindi un luogo salutare, in contrapposizione con la città di Milano.
5 austro scortese: si tratta dello scirocco, un vento caldo ed umido di sud-est, tradizionalmente considerato come apportatore di malattie (e quindi, “scortese”).
6 monti: sono le Alpi lombarde, che proteggono la collina e la pianura dai venti freddi.
7 borea con rigid’ale: è il vento di tramontana, che soffia da nord e che è particolarmente freddo.
8 infetto: dei germi della malaria.
9 A quel tempo le risaie a Milano erano interne alle mura della città; ciò permetteva ovviamente maggiori guadagni nella coltivazione del riso, ma esponeva anche la popolazione ai rischi delle malattie, tra cui la malaria.
10 Stige: nella concezione dell’aldilà greco-romana, lo Stige è uno dei cinque fiumi dell’Oltretomba, e aveva la forma di una gigantesca palude prima del regno dei morti vero e proprio. Nell’Inferno di Dante, lo Stige è collocato nel quinto cerchio.
11 Mira: il soggetto del verbo è il “cittadino” del v. 41.
12 onusta: latinismo per “gravata”, da onustus, -a, -um. L’aggettivo ha valore concessivo e spiega che la gente di campagna, benché appensantita dal lavoro nei campi, è assai più in salute di quella di città.
13 crescente pane: si tratta di una metonimia che indica il grano, che viene sostituito dal prodotto finale del “pane”.
14 avarizia: è un altro latinismo, e quindi non indica tanto l’avarizia quanto l’avidità e la sete di ricchezze (avaritia, -ae).
15 prati: qui Parini allude alle marcite, ovvero una tecnica di coltivazione per cui i terreni sono sempre immersi nell’acqua, sia nella stagione invernale sia in quella estiva. Questo metodo rende i campi molto fertili e permette delle raccolte di foraggio più frequenti, con cui allevare il bestiame o, in questo caso, i pregiati cavalli dei nobili.
16 Il danno per la popolazione è insomma doppio: non solo essa subisce le conseguenze nocive delle marcite ma, ormai priva di forze per stare in piedi, viene spesso investita dalle carrozze dei nobili e dai loro cavalli.
17 Il letame lungo le strade è prodotto dai cavalli della nobiltà.
18 lenta: l’aria cittadina è immobile perché non ventilata, a differenza di quanto avviene in campagna.
19 lari: i Lari sono divinità romane che proteggevano il focolare domestico. Come ne Il Giorno o nell’episodio della “vergine cuccia”, l’uso di figure mitologiche o classiche contribuisce all’ironia sferzante del poeta.
20 frequenti: si tratta di un altro latinismo, che significa “frequentato, affollato, pieno”.
21 Altro motivo di disgusto per Parini è la presenza di carcasse di animali morti lunghe le vie: il loro fetore di decomposizione è un’altra causa di diffusione di malattie tra la popolazione.
22 vaganti latrine: le cosiddette navazze stercorarie erano carri in cui si caricava il contenuto delle latrine per portarlo fuori dalla città. Spesso circolavano di giorno e senza l’adeguata copertura, diffondendo una “aura molesta” per la città.
23 Temi: è la personificazione della Giustizia (il suo nome significa “irremovible”). Se quindi ci sono leggi che vietano l’inquinamento cittàdino, nessuno a Milano pare rispettarle.
24 Tutti respirano la stessa aria, quindi il danno di uno è il danno di tutti e viceversa.
25 Nella conclusione dell’ode, Parini esplicita la finalità etica e civile della propria poesia, secondo il precetto oraziano dell’Ars poetica (342-343) di miscere utile dulci, ovvero di mescolare la piacevolezza della poesia (il “lusinghevol canto”) con quello dell’utilità del contenuto del testo.