6'

La rima: tipi e definizione

Nel senso comune, tutti noi sappiamo dare una definizione di “rima”, intesa come la somiglianza nel suono conclusivo di due parole, che, appunto, fanno “rima” soprattutto quando sono poste a breve distanza fra di loro, magari all’interno della stessa frase o in coincidenza di una pausa forte del discorso (come un punto fermo).

In metrica e nella tradizione poetica in volgare italiano le cose stanno più o meno così: la rima (termine che attraverso il francese antico risme deriva dal latino rhythmus, che individua, nella produzione in versi latina medievale tutti quei componimenti che, non basandosi più sulla metrica quantitativa classica, hanno come nuovi criteri compositivi quelli del numero di sillabe del verso, della posizione dell’accento e appunto della rima) si definisce più precisamente come l’identità del suono con cui terminano due parole di due o più versi, a partire dall’ultima vocale tonica (ovvero, accentata) compresa. La rima, in sostanza, è un altro criterio di distinzione (insieme con la misura del verso, la disposizione degli accenti e la scansione strofica) che i poeti utilizzano per separare il discorso letterario da quello in prosa e da quello quotidiano; in più, la percezione di un “ritorno” di qualcosa che abbiamo già sentito (il suono in sede di rima) stimola l’attenzione dell’ascoltatore, lo predispone alla fruizione estetica del testo e facilita la sua memorizzazione (particolare non trascurabile in un contesto storico-culturale in cui, per motli secoli, il libro manoscritto o a stampa era merce assai preziosa). Troviamo un ottimo esempio dell’uso della rima nel noto sonetto proemiale Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono del Canzoniere di Petrarca, di cui riportiamo qui le due quartine: 

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono:

del vario stile in ch’io piango et ragiono,
fra le vane speranza e ‘l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Gli endecasillabi sono collegati tra loro secondo lo schema ABBA ABBA (suono/sono, core/errore; ragiono/perdono; dolore/amore), elemento che già da solo indica come la rima abbia una insostituibile funzione di organizzazione strofica del testo poetico. Ne conseguono i principali schemi e tipi di rime:

  • la rima alternata, che, nella forma ABAB, collega versi alterni; è tipica delle quartine del sonetto (ABAB ABAB), dell’ottava toscana (o “ottava rima”, una stanza di otto versi, tipica dei poemi narrativi epico-cavallereschi di Boiardo, Ariosto e Tasso, nella forma ABABABCC con distico baciato finale), dell’ottava siciliana (una ottava del tipo ABABABAB) e della sestina narrativa o “sesta rima”
  • la rima baciata, che unisce nella classica struttura AABBCC versi tra loro contigui; diffusa soprattutto nella forma del distico (due versi).
  • la rima incrociata, dove, nei quattro versi di una quartina, i due “esterni” e i due “interni” rimano tra loro, secondo lo schema ABBA CDDC. È noto che anche questo schema è assai diffuso nelle quartine del sonetto.
  • la rima incatenata (ABA BCB CDC...) che si impone, con il nome di terza rima o terzina dantesca, a partire dall’uso che Dante Alighieri ne ha fatto nella sua Commedia. Casi particolari di rime incatenate sono la rima ripetuta o replicata (strofe di tre versi del tipo ABC ABC, che ritroviamo nel “piede” della canzone e nelle terzine del sonetto) e quella invertita (che segue uno schema retrogradante: ABC CBA)

 

Si capisce da subito che l’andamento delle rime si presta ai giochi stilistici dei diversi periodi socio-culturali, nonché all’inventiva del singolo poeta. Abbiamo così una vasta tipologia per classificare le rime: dalla rima facile (tra le desinenze di verbi o i suffissi degli avverbi, o tra parole ormai radicate nella percezione comune come rimanti tra loro: fare/amare; continuamente/illimitatamente; cuore/amore) alla rima difficile (detta anche “cara” o “rara” per sottolineare l’abilità stilistica di chi l’ha ideata) e a quella derivativa (in cui i due termini sono collegati da rapporto di derivazione), da quella perfetta, privilegiata nella lirica, a quella imperfetta (parleremo allora di assonanza se si mantengono solo le vocali e di consonanza se invece restano invariate le consonanti), dalla rima equivoca (che lega parole omofone ma di significato diverso) a quella ricca (in cui l’identità di suono si estende oltre l’ultima sillaba tonica). Non mancano poi casi di rime “culturali”, radicatesi come tali per fatti inerenti a fenomeni socio-letterari più che tecnico-metrici: il caso più emblematico è quello della “rima siciliana”, in cui, per la toscanizzazione dei testi della Scuola siciliana da parte dei poeti toscani del Duecento, rime che erano “perfette” uniscono ora in sede tonica la i con la é (e chiusa) e la u con la ó (o chiusa). Altri casi notevoli sono quello in cui la rima riguarda parole che non sono sempre in chiusura di verso, ma in cui una è a metà del verso (come per le rime al mezzo, spesso in coincidenza della fine di un emistichio) o quello della rima ipermetra, tipica di Pascoli ma rintracciabile anche in Montale, in cui una parola sdrucciola rima con una piana (come ne Il gelsomino notturno, o in Non chiederci la parola).

Se dunque la rima ha molte funzioni nell’organizzazione del testo poetico, essa diventa un vero e proprio elemento portatore di significato, utilissimo per l’interpretazione del testo. Se ricordiamo i primi nove versi del primo canto dell’Inferno dantesco

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

possiamo pensare che termini scelti da Dante già sintetizzino bene la sua situazione e ciò che l’attende: al periodo di traviamento etico ed esistenziale (vita/smarrita) corrisponde l’angoscia dello smarrimento (oscura/dura/paura), alla cui sensazione di dramma e pericolo (“selva [...] forte”) corrisponde la possibilità di raccontare ciò che si è visto nel mondo infernale (le “cose [...] scorte”, e quindi implicitamente anche una speranza di salvezza).