Non chiederci la parola, celebre poesia della raccolta Ossi di Seppia che apre la sezione omonima, fu composta da Eugenio Montale il 10 luglio 1923. Si tratta di tre quartine, con le prime due strofe a rima incrociata (ABBA) e la terza a rima alternata; ai versi 6 e 7 è presente una rima ipermetra (cioè con una sillaba in più) tra "amico" (parola piana) e "canicola" (parola sdrucciola). La posizione che il componimento occupa all'interno della raccolta e, soprattutto, il suo contenuto lo rendono una dichiarazione di intenti: un vero e proprio "manifesto poetico".
Sin dall'esordio, infatti, con il plurale negativo "Non chiederci", si avverte un'aria di solennità; lo stesso uso del "noi" è insolito per Montale, che in genere esprime l'Io poetico alla prima persona singolare e tende ad evitare l'elemento fortemente soggettivo. Come si capirà nel seguito della poesia, il plurale vuole fare riferimento alla generazione di poeti a cui lo stesso autore appartiene, verso cui non si può nutrire l'aspettativa di una parola che restituisca una verità oggettiva in modo netto e solenne: "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato". Questa generazione non coglie tutto del proprio animo e, dunque, non riesce nemmeno ad esprimerlo: tale impossibilità comunicativa corrisponde al mondo esterno, visto come isolato e distante dalla propria interiorità. Non si tratta di una visione del mondo totalmente nichilista, ma delimita piuttosto quali aspetti della realtà è in grado di esprimere il poeta, considerato che essa - dal punto di vista da cui egli si trova - non è esprimibile linguisticamente.