3'

"I limoni" di Eugenio Montale: analisi e commento

Testo d’apertura degli Ossi di seppia, dopo l’introduzione de Godi se il vento ch’entra nel pomario della sezione In limine, I limoni è una delle poesie più note di Montale proprio perché costituisce un vero e proprio manifesto della poetica dello scrittore. Il primo verso, con la sua richiesta di ascolto, è determinante per segnare la distanza rispetto alla tradizione dannunziana, identificabile appunto nei “poeti laureati” e nei loro pregiati “bossi ligustri o acanti” (v. 3), di cui si avverte ormai tutta l’artificiosa convenzionalità. Il diverso atteggiamento montaliano è esplicito soprattutto nella scelta dei nuovi referenti, più quotidiani e meno nobili, della propria poesia. Le “pozzanghere | mezzo seccate” (vv. 5-6), le “viuzze che seguono i ciglioni” (v. 8), e gli “alberi dei limoni” (v. 10) definiscono allora l’importanza del paesaggio (ligure, innanzitutto) nel primo Montale. La realtà circostante diviene, all’occhio del poeta, il simbolo concreto di una dimensione esistenziale dominata da un senso di inautenticità e disarmonia (la “guerra” cui allude il v. 19); ma a riscattare questa situazione negativa, in alcuni attimi di sospensione quasi magica, c’è “l’odore dei limoni” (v. 21), che diventa preziosa chiave d’accesso ad un mondo ‘altro’, dove è possibile entrare grazie ad un “anello che non tiene” (v. 27) della nostra realtà.

Si capisce quanto Montale si distacchi qui dalle pose del poeta-vate, che rivelava una verità superiore al devoto pubblico degli ascoltatori: quelli qui presentati non possono che essere frammenti di una felicità sfuggente e sempre in bilico, cui si arriva spezzando in maniera istintiva il velo della convenzione del mondo (e delle parole: e non a caso Montale ammetterà che tra le sue fonti c’era lo Schopenauer de Il mondo come volontà e rappresentazione). E tanto impagabili saranno questi attimi, che coloro i quali vi hanno attinto assumono quasi i tratti di una “divinità” (v. 36), che però resta sempre laica e filosofica, senza prendere affatto fattezze da superuomo o connotazioni religiose. Il “male di vivere” (che qui il poeta percepisce, e che teorizzerà lucidamente anche in altri testi degli Ossi di seppia) è sempre in agguato: il paesaggio urbano della parte conclusiva de I limoni sembra infatti svilire ogni “illusione” (v. 37) di trovare una verità delle cose umane; eppure non viene meno un bagliore di speranza. Dal “malchiuso portone” (v. 43) che riconferma il ruolo fondamentale degli oggetti nella poetica montaliana potrebbe infatti uscire, un giorno, il colore solare del limoni, per offrire una nuova occasione di provvisoria felicità.

Se certo Montale, come affermato da lui stesso in una Intervista immaginaria del 1946, voleva “torcere il collo” ai modelli letterari e “all’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica”, tuttavia ne I limoni il piano tecnico-retorico è tutt’altro che secondario: nei versi liberi si susseguono, spesso ben mimetizzati, endecasillabi e settenari (questi ultimi a volte doppi), legati da rime al mezzo (vv. 1-3: “laureati | usati”; vv. 31-32: “indaga | dilaga”) e da un apparato metrico-fonico molto curato. Si susseguono infatti, ne I limoni, suoni aspri e secchi (v. 6: “mezzo seccate”; v. 8: “le viuzze”; v. 11: “gazzarre”), endecasillabi ipometri o ipermetri (e cioè, con una sillaba in meno o in più rispetto alla misura tradizionale), ed una calibrata scelta di immagini visivo-coloristiche, come quelle che chiudono la poesia sfociando nelle “trombe d’oro della solarità” (v. 49).