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D'Annunzio e Montale: da "La pioggia nel pineto" a "I limoni"

Parafrasi Analisi Montale e D'Annunzio

Eugenio Montale, come molti poeti novecenteschi, è dotato di un gusto particolare per i componimenti programmatici. I limoni, posto quasi in apertura degli Ossi di seppia, è certamente la sua dichiarazione di poetica più celebre. Specialmente nei versi iniziali Montale prende le distanze dalla tradizione aulica e colta, rappresentata, attraverso una specie di raffinata metonimia, dalle piante spesso cantate dai “poeti laureati” (vv. 1-3). I “bossi”, “ligustri” e “acanti” sarebbero così il simbolo dei vati ufficiali dell’Italia unita: Carducci, Pascoli e D’Annunzio, indicati dal poeta con i nomi rari e sonori dei vegetali che compaiono nelle loro poesie. Montale sfoggia ironicamente la sua antiletterarietà, in controtendenza con le principali mode del tempo (come anche nel suo intervento critico Stile e tradizione del 1925 sulla rivista «Il Baretti»): l’antiletterarietà non è solo apertamente dichiarata, ma anche perseguita attraverso il registro stilistico. Vediamo infatti l’uso insistito di una sintassi colloquiale, da discorso a tu per tu, lontanissima dalla poesia “alta” che Montale prende a bersaglio.

A queste osservazioni ormai consolidatesi nel tempo bisogna però aggiungere di non fidarsi troppo di Montale, specie quando commenta le sue scelte poetiche, anche in forma indiretta. E infatti, nonostante le dichiarazioni esplicite, I limoni è un componimento raffinato, e tutt’altro che privo di modelli e referenti letterari. Il crepuscolarismo, ad esempio, aveva già reagito al modello di D’Annunzio, attraverso un radicale abbassamento della poesia in direzione della prosa e del quotidiano. I lavori di Camillo Sbarbaro e Giovanni Boine ispirano Montale per la rappresentazione del paesaggio ligure, caratteristicamente impervio, quindi come dire anticlassico. Anche importanti modelli stranieri, come i simbolisti franco-belgi, sono ben presenti in filigrana (come ad esempio Jules Laforgue). E ne I limoni ritroviamo lo stesso D’Annunzio, sebbene in forma dialettica e stravolta. Possiamo infatti paragonare I limoni con un testo dannunziano altrettanto significativo: La pioggia nel pineto.

L’attacco del verso 1, “Ascoltami”, ricorda l’anafora insistita su cui è costruita La pioggia nel pineto (ad esempio: “Ascolta. Piove | dalle nuvole sparse” vv. 8-9; o “Ascolta, ascolta. L’accordo | delle aeree cicale”, vv. 65-66). Anche i bei versi che descrivono l’effetto provocato dall’odore dei limoni contengono un’ispirazione dannunziana: “e i sensi di quest’odore | che non sa staccarsi da terra | e piove in petto una dolcezza inquieta” (vv. 15-17). In questo passaggio l’immagine è ricercata ed efficace, e la sintassi è preziosa: “piove” è infatti usato transitivamente, nel senso di “cola”, con l’“odore” come soggetto e la “dolcezza” come oggetto. Oltre alla pioggia – che però, nell’ultima strofa, “stanca la terra” (v. 40) in modo del tutto opposto a quella “del pineto” (in cui la pioggia scende in modo quasi sacrale su bosco e protagonisti) – notiamo che è lo speciale valore conferito alla percezione dei sensi a ricordare D’Annunzio. Diversamente però dal poeta del “vivere inimitabile”, la sensazione dei limoni non ha in Montale nulla di trionfalistico e vittorioso. Il miracolo conoscitivo che potrebbe nascere dai “silenzi” nella terza strofa (“il filo da disbrogliare che finalmente ci metta | nel mezzo di una verità”, vv. 28-29) alla fine non si realizza, e rimane una chimera. “L’illusione manca” (v. 37), cioè svanisce: ed è un sogno ben più amaro della “favola bella” che “illude” i “semidivini” protagonisti de La pioggia nel pineto (vv. 29-32). Gli accenti dannunziani ritornano nella chiusa della poesia: un eventuale incontro con un’altra pianta di limoni può provocare una nuova eccezione alla quotidianità opaca e amara del poeta. In questo caso, le “trombe” dorate del sole “scrosciano” (ancora transitivo e di sapore dannunziano) le loro “canzoni” nel cuore del poeta, cioè vi riversano la felicità (vv. 47-49).

Per costruire questa complessa immagine sensoriale e insieme interiore Montale usa un procedimento sinestetico, ovvero di unione e di fusione di sfere sensoriali diverse (come, in questo caso, vista e udito). Secondo Pietro Cataldi, attraverso questa strategia stilistica il modello dannunziano viene non solo imitato ma addirittura “sfidato” 1Il rapporto tra Montale e D’Annunzio è quindi molto più articolato di quanto possa apparire in superficie. Per spiegarne la complessità, i critici usano un’immagine inventata da Montale stesso, e riferita a Guido Gozzano, che per l’autore degli Ossi di seppia è stato:

il primo poeta del Novecento che riuscisse (com’era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attraversare D’Annunzio per approdare a un territorio suo 2.

Montale, possiamo allora dire, ha attraversato D’Annunzio, confrontandosi con la sua grandezza tecnico-stilistica (sia in prosa sia in versi) e rovesciandone l’ideologia trionfale e super-omistica, in direzione di una più disincantata e sofferta condizione umana. L’autore degli Ossi contrappone ai toni accesi e magniloquenti di D’Annunzio un’etica più difficile, una prospettiva esistenziale in cui l’uomo, in lotta con la natura e il cosmo, è alla disperata ricerca della salvezza (la felicità, ma anche il “senso” delle cose). Pietro Cataldi ha messo in luce in modo assai preciso questa differenza ideologica, tracciando una via per capire più in profondità il rapporto tra due giganti della poesia novecentesca: 

Come D’Annunzio aspira a riconoscersi nel tutto e ad affermare nella dimensione del panismo la propria identità, così Montale è costretto a riconoscersi nei frantumi scissi dal contesto, particolari espulsi dall’universale, e costretto a misurarsi con la crisi di identità apportata dal destino di deiezione e di estraneità. In D’Annunzio tutto si ritrova; in Montale tutto si perde, “con la cenere degli astri” 3.

Bibliografia essenziale:

- P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991.

- G. Contini, Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974 (2002).

- P. V. Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, in La tradizione del novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, pp. 15-115.

- E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d'Amely, Milano, Mondadori, 2003.

1 Come chiarisce il critico: “Tuttavia il modello dannunziano appare già qui, più che rinnegato, sfidato, e utilizzato in vari modi (per esempio rappresentando le percezioni sensoriali per mezzo della sinestesia)” in P. Cataldi, Cappello introduttivo a "I limoni", in Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 2003. p. 12.

2 E. Montale, Gozzano dopo trent’anni (1951), in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, Milano, Mondadori, 1996, p. 1275.

3 P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991, p. 22.