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La Teoria delle Idee nei dialoghi platonici: passi scelti e commento

Dopo le fondamentali acquisizioni della logica eleatica e del suo discorso sull’Essere e dopo l’attività disgregatrice della retorica sofistica, il discorso su conoscenza e verità giunge al tentativo socratico di una rifondazione sulle basi di un universale etico, condiviso il più largamente possibile. Platone, allievo di Socrate ma al tempo stesso filosofo di vasta e duttile formazione (dagli esordi con l’eracliteo Cratilo fino alle suggestioni pitagoriche rintracciabili in alcuni suoi dialoghi), riporta con forza al centro degli obiettivi della ricerca filosofica sia il problema gnoseologico (ovvero, la teoria della conoscenza, da gnòsis, “conoscenza” e lògos, “”discorso”) sia quello ontologico (cioè, la dottrina dell’essere, da òntos e logos, “discorso dell’essere”).

 

Se è con la Repubblica che Platone formulerà nel senso più completo la propria teoria della conoscenza, già nel Teeteto (composto tra il 368 e il 367 a.C.) il filosofo ateniese affronta criticamente i problemi irrisolti lasciati sul campo, a suo dire, dalla scuola eleatica, dai megarici e dai sofisti. In particolare, Socrate pare schierarsi in particolare contro l’idea che la vera conoscenza sia direttamente desumibile dall’esperienza dei sensi:

 

Dunque vi sono sensazioni che uomini e bestie hanno da natura subito appena nati, e sono tutte quelle affezioni che giungono fino all’anima, attraverso il corpo; ma quel che l’anima, riflettendoci su, riesce a scoprire intorno a codeste affezioni, sia relativamente all’essere loro che alla loro utilità, tutto ciò a gran stento si raggiunge, e col tempo e dopo molta esperienza e istruzione, da quei pochi che lo raggiungono. [...] Dunque in queste affezioni [e cioè, nell’esperienza dei sensi] non c’è conoscenza, bensì nel ragionare che si fa intorno a esse: perché per questa via è possibile, come sembra, toccare l’essere e la verità, per quella è impossibile.

Ma la conoscenza, nel panorama platonico, riaffiora in molti dialoghi distinti; nel Menone, ad esempio, mentre si discute della aretè (la “virtù”), Socrate sfrutta l’occasione per trattare della “reminiscienza” come facoltà insita in tutti noi di far riaffiorare, attraverso il ragionamento, un sapere che la nostra anima immortale ha da sempre in sé:

 

L’anima, dunque poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può far riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. [...] Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscienza! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico [quello tipico della sofistica, per cui si può sostenere qualsiasi cosa, indipendentemenete dal fatto che essa sia vera o falsa], ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù.

Per dimostrare le risorse della reminiscienza, Socrate riesce a far dimostrare ad un servo dello stesso Menone, maieuticamente, che “il quadrato di superficie doppia di quella di un dato quadrato è dunque quello che ha per lato la diagonale del quadrato”, e poi conclude, in tono quasi entusiastico:

 

Forse su altri punti del discorso non mi sentirei d’essere tanto sicuro, ma per questo, che, cioè, pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti, meno pigri, che se ritenessimo impossibile trovare e non dover cercare quello che non sappiamo, per questo, se ne fossi capace, combatterei con forza, con la parola e con i fatti.

La teoria platonica delle idee e della conoscenza ha dunque fondamenta assai profonde, che poi nella Repubblica si concretizzeranno nella celebre allegoria della “caverna”; e, a riprova dell’importanza del tema nella ricerca incessante di Platone, anche il Timeo (dialogo composto presumibilmente tra 360 e 347 a.C.) torna sulla questione, con il passo sul Demiurgo creatore del nostro mondo. Questo artefice divino (appunto demiourgòs) avrebbe creato il mondo sensibile ispirandosi all’essere eterno delle idee (né poteva andare diversamente, dato che stiamo parlando di un dio...):

 

Ora né fu mai, né è lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella. Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai più bella di un’altra, che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz’anima. Per questo ragionamente componendo l’intelligenza nell’anima e nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui compiuta fosse la più bella secondo natura e la più buona che si potesse.