"Ultime lettere di Jacopo Ortis" di Foscolo: commento all'edizione del 1816

Introduzione all'edizione del 1816 di Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, a cura di Matteo Pascoletti.
 
Nell'edizione del 1816 viene aggiunta una postfazione, Notizia bibliografica, in cui Foscolo giustifica le sue scelte di contenuto e stile del romanzo, difendendosi dall'accusa di scabrosità dell'argomento. Inoltre confronta la sua opera con il romanzo epistolare del 1774 di Goethe,I dolori del giovane Werther, negando l'accusa di emulazione, con diverse motivazioni. Sappiamo tuttavia che Foscolo prese ispirazione per il suo romanzo proprio da quello di Goethe, come viene dichiarato dal poeta stesso in una lettera inviata al grande poeta tedesco. In questa lettera del 1802 Foscolo dichiara che il romanzo di Goethe gli ha ispirato la stesura delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, ma che le vicende narrate nel suo romanzo sono strettamente autobiografiche e legate al suicidio di un suo amico. L'amico in realtà era lo studente padovano, Girolamo Ortis, suicidatosi nel 1796.
Nell'edizione del 1816 compare una lettera datata il 17 marzo, diversa rispetto a quella del 1802. In questa lettera appare un Ortis freddo e disilluso sulla situazione politica italiana. Foscolo retrodata la lettera, dichiarando di averla scritta nel 1802. Ma si può facilmente evincere dalle considerazioni politiche di Jacopo Ortis presenti nella lettera che è stata scritta successivamente, nell'Italia postnapoleonica. La lettera si conclude infatti con un lungo sfogo sulla tragica sorte dell'Italia.
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Buonasera. Questa è la terza lezione dedicata a Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. Eravamo rimasti all’edizione del 1816 e alla Notizia bibliografica, una post-fazione che Ugo Foscolo pone in fondo all’edizione dell’opera e in cui ricostruisce le varie vicende del romanzo: la questione dell’edizione apocrifa del 1798, la ricezione dell’opera, le polemiche per il suo contenuto che poteva sembrare scabroso e anche una sorta di difesa dall’accusa di essere un’emulazione del romanzo di Goethe, I dolori del giovane Werther

A tal proposito, come accennato l’altra volta, è patrimonio comune, acquisito della critica che in realtà la derivazione dal libro di Goethe sia molto forte ed esplicita, soprattutto per la prima edizione che è quella più letteraria. Foscolo cerca di staccare l’Ortis da questa orbita d’influenza sostenendo tre cose. Il suicidio del suo personaggio è una scelta dettata dalla volontà di aderire totalmente alle proprie emozioni, tenendo presente che queste forti passioni non possono assolutamente tradursi in nulla di concreto al di fuori di sé perché l’ideale di patria non può essere realizzato, perché l’amore per Teresa non può coronarsi. Nell’impossibilità di aderirvi per vivere fino in fondo la propria virtù, si suicida mentre, secondo Foscolo, nel romanzo di Goethe il suicidio è una sciagura che occorre al protagonista, quindi c’è un fondo di giustificazione nell’opera del suicidio. Da considerare anche il ruolo di Lorenzo, un personaggio autonomo che non ha soltanto il ruolo funzionale di dover fare da sponda a quello che dice il protagonista, come potrebbe essere il Guglielmo del Werther, ma interviene e ha un suo ruolo cardine soprattutto nella seconda parte: riordina, descrive, narra con dovizia di particolari cose che, se rimanessimo soltanto alle lettere, non potremmo conoscere, quindi è un personaggio in tutto e per tutto. Foscolo sminuisce la conoscenza dell’opera però noi sappiamo, ed è uno dei motivi per cui si crede meno a Foscolo e alla Notizia bibliografica, che non solo conosceva il Werther in tempi molto giovanili (1796), ma c’è poi una lettera che invia quando invia un’edizione ancora incompleta della versione del 1802 che doveva uscire per Menardi proprio a Goethe, attestando una sorta di affiliazione spirituale. La lettera dice: “Riceverete dal signor Grassi il primo volumetto d'una mia operetta a cui forse diè origine il vostro Werther. Duolmi che voi non vediate se non i primi atti, per così dire della tragedia; gli ultimi sono i più veri e più caldi.” Già qui, nel 1802, cerca di rivendicare una propria autonomia perché dice: “Ho dipinto me stesso, le mie passioni, e i miei tempi sotto il nome di un mio amico ammazzatosi a Padova.”

In realtà (Gerolamo Ortis, lo studente che col suo suicidio ispirò l'opera) non era proprio un suo amico, era uno studente padovano, quindi frequentando il posto lo poteva conoscere, ma non era una persona a cui era strettamente legato, come magari lascia intendere dalla lettera. Come già accennato, questo ci fa capire come Foscolo abbia bisogno non tanto di mistificare, nascondere le cose, ma di proiettarle verso un ideale letterario estetizzante che serve per tramandare nel tempo l’idea dell’opera, la sua idealità. Non va vista con gli occhi moderni di uno che prova a fare il furbo, questo sarebbe un errore interpretativo

Altra caratteristica molto importante dell’edizione del 1816 è in particolare la lettera datata 17 marzo, la quale è completamente diversa nell’edizione del 1802. Lì abbiamo un Ortis che si lamenta perché ha avuto un’infreddatura di cinque giorni e quindi è malinconico perché non ha potuto vedere Teresa; qui invece Foscolo riprende un testo che non è stato completato de La servitù dell’Italia, un saggio politico molto duro nei confronti degli italiani. In questa lettera troviamo un Ortis molto disincantato, scettico e assolutamente più freddo di quanto siamo abituati a conoscerlo leggendo altre lettere. Foscolo cercherà di far passare questa lettera come se fosse stata scritta nel 1802, come non inclusa nella versione che poi andò in stampa. In realtà sappiamo che questa lettera è stata scritta alla fine del 1815 o ai primi mesi del 1816 e quindi nel parlare dell’Italia napoleonica ne parla con il senno di poi. Già leggendo la lettera si capisce che è una retrodatazione perché dice: “La Natura crea di propria autorità tali ingegni da non poter essere se non generosi; venti anni addietro sì fatti ingegni si rimanevano inerti ed assiderati nel sopore universale d’Italia: ma i tempi d’oggi hanno ridestato in essi le virili e natie loro passioni”. Quel “venti anni fa” si riferisce al 1795-96, periodo caldo della Repubblica veneziana, mentre il 1815-1816 è il periodo della Restaurazione in cui la situazione sembra essere ritornata quella di prima. Richiamandosi a questi vent’anni, Foscolo lascia capire quale sia la vera datazione. 

Interessante è il tono con cui parla di determinati argomenti che poi nel libro sono trattati con un altro calore; per esempio quando dice: “L'Italia ha de' titolati quanti ne vuoi; ma non ha propriamente patrizj: da che i patrizj difendono con una mano la repubblica in guerra, e con l'altra la governano in pace; e in Italia sommo fasto de' nobili è il non fare e il non sapere mai nulla.” Questa è una critica all’Italia, nell’incapacità di esprimere dell’élite che siano tali, però va a tutti gli strati sociali: “I medici, gli avvocati, i professori d'università, i letterati, i ricchi mercatanti, l'innumerabile schiera degl'impiegati fanno arti gentili essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco”, cioè fanno attività da cittadini, ma non hanno la mentalità e lo spirito dei cittadini; per questo che dice che non è un vero popolo quello italiano. “Chiunque si guadagna sia pane, sia gemme con l'industria sua personale, e non è padrone di terre, non è se non parte di plebe; meno misera, non già meno serva. Terra senza abitatori può stare; popolo senza terra, non mai: quindi i pochi signori delle terre in Italia, saranno pur sempre dominatori invisibili ed arbitri della nazione.” È molto duro. Il tono è quello del trattato, della saggistica: dà una descrizione molto precisa, molto intagliata, senza particolare enfasi o particolari espedienti stilistici che in qualche modo facciano pensare a un trasporto sentimentale o ha un patos. È freddo.

Sul discorso del disincanto dell’Ortis in questa lettera, è interessante quando parla delle letture in cui si è abbandonato nel periodo e dice cosa ha raccolto da queste letture: “Ho raccolto: Che abbiamo tutti passioni vane com'è appunto la vanità della vita; e che nondimeno sì fatta vanità è la sorgente de' nostri errori, del nostro pianto, e de' nostri delitti.” È finalmente un Ortis scettico e addirittura, parlando sulla vanità e sugli errori che nascono dalle passioni, tocca il tema del suicidio. Un personaggio che alla fine del romanzo si suicida parli in modo scettico del valore del suicidio è molto interessante. Ci dice anche di come il Foscolo, a distanza di anni, si sia un po’ distanziato da questa opera che pure sente, ma la sente più freddamente. Prende l’esempio di Catone e Cozio: “Quando Catone s'uccise, un povero patrizio, chiamato Cozio, lo imitò: l'uno fu ammirato perché aveva prima tentato ogni via a non servire; l'altro fu deriso perché per amore della libertà non seppe far altro che uccidersi.” C’è chi si uccide e passa per eroe e c’è chi si uccide e passa come uno sciocco che ha voluto imitare un grande gesto. 

Per notare un’altra differenza, prendiamo una lettera del 25 settembre che nel romanzo è scritta dopo, ma che in realtà è stata scritta prima; lettera in cui Ortis è in Toscana, la terra, la culla della civiltà letteraria italiana del massimo splendore espresso dall’Italia nei secoli. Si abbandona alla “tirata”, cioè un lungo sfogo in cui rimpiange, inveisce contro la sorte cui è toccata l’Italia e le condizioni in cui versa oggi l’Italia e il popolo italiano. Scrive: “Così noi tutti Italiani siamo fuoriusciti e stranieri in Italia, e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo; spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi concittadini i quali, anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegli italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene – dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? Le nostre messi hanno arricchiti nostri dominatori; ma le nostre terre non somministrano né tugurj né pane a tanti Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori dal cielo natio, e che languenti di fame e di stanchezza hanno sempre all’orecchio il solo, il supremo consigliere dell’uomo destituto da tutta la natura, il delitto!”. Qui la situazione è simile perché si lamenta dell’impossibilità dell’Italia di esprimere un popolo però è battagliero, è fiero, è iracondo. C’è quello che chiamiamo il patos, una forte reazione emotiva di fronte a una realtà esterna che schiaccia e che soverchia. In questa differenza, nel medesimo ambito tematico, possiamo vedere quanto Foscolo a distanza di anni è mutato sia come stile sia come visione e immedesimazione nei confronti del personaggio. Su questa annotazione vi saluto e vi ringrazio per aver seguito finora le lezioni dedicate a Foscolo. Arrivederci.