Per definire i tratti variegati e spesso contrastanti del pensiero e della poetica di Ugo Foscolo è utile ricordare la descrizione che il poeta dà di se stesso nel sonetto Autoritratto, che da un lato è modellato sull’esempio di Alfieri (Sublime specchio di veraci detti) ma dall’altro lascia trasparire anche alcuni tratti psicologici del suo autore. Nella terzina conclusiva (vv. 12-14), Foscolo ad esempio afferma
di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.
Ritroviamo qui alcuni atteggiamenti tipici di Foscolo e alcune caratteristiche ricorrenti della sua produzione letteraria. Innanzitutto, il conflitto tra la ragione e gli impulsi delle passioni, che ne fanno una figura a metà strada tra la cultura neoclassica e la nuova sensibilità romantica. In secondo luogo, la mescolanza di “vizi e virtù”, che ritroveremo, oltre che nell’autore stesso e nella sua forte personalità, anche nei personaggi romanzeschi più autobiografici, come Jacopo Ortis o Didimo Chierico. In terzo luogo, l’immagine della morte come condizione di pace e serenità rispetto ai tormenti della vita e alla lotta contro il proprio destino. Questi motivi si intersecano in tutta la produzione foscoliana, dall’esordio con il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis - dopo gli esordi giovanili classicheggianti e la tragedia Tieste -
fino al poemetto incompiuto delle Grazie, secondo un percorso che va dall’esaltazione delle passioni della prima opera alla loro ricomposizione all’insegna dell’armonia e bellezza classiche. Questo percorso si interseca con gli eventi storici dei primi due decenni dell’Ottocento, che vedono Foscolo coinvolto in grandi rivolgimenti storici ed ideali: dall’entusiasmo per il “liberatore” Bonaparte alla cocente delusione per il Trattato di Campoformio, dalla crisi dell’esperienza delle “repubbliche giacobine” al rifiuto di scendere a patti con il potere austriaco, fino alla dimostrazione di coerenza personale con l’autoesilio in Inghilterra.
Le Ultime lettere sono il primo esempio del tentativo foscoliano di far coesistere queste spinte antitetiche all’interno della stessa opera. L’ispirazione dell’opera è tipicamente romantica e il modello di riferimento è il Werther di Goethe (1749-1832), anche se bisogna tenere presente che la figura dell’eroe ribelle, giovane e in lotta con il mondo e con le proprie passioni, è un topos che si afferma in tutte le letterature europee - basti pensare al René (1802) di Chateaubriand (1768-1848) oppure al Pellegrinaggio del giovane Harold di Lord Byron (1788-1824). A ciò si aggiungono le suggestioni sul ritorno allo “stato di natura” postulato dal filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che si rendono evidenti ed esplicite durante le peregrinazioni di Jacopo per i colli Euganei e poi per l’Italia. Altri modelli letterari di riferimento sono Laurence Sterne (1713-1768), il cui influsso è abbastanza manifesto nell’inserto narrativo del Frammento della storia di Lauretta, e le tragedie di Vittorio Alfieri. La disillusione etica politica e politica di Jacopo (come nel celebre incontro con Giuseppe Parini) è poi a sfondo autobiografico, secondo quella che sarà una costante della scrittura foscoliana, cioè quella di trasferire sulla pagine passioni e tensioni personali. A ciò s’aggiunge il tema amoroso, che introduce una caratteristica fondamentale della poetica di Foscolo: la contemplazione platonica della bellezza, intesa come fonte di salute e di consolazione per i dolori del mondo. È un tema che tornerà anche nei sonetti e nel carme Dei sepolcri, per aver pieno sviluppo nel poemetto le Grazie, poi lasciato incompiuto. Queste le parole di Jacopo quando, nella lettera del 3 dicembre, descrive la visione dell’amata Teresa:
Ora ponti nel mio cuore, quand’io udiva cantar da Teresa quelle strofette di Saffo tradotte alla meglio da me con le altre due odi, unici avanzi delle poesie di quella amorosa fanciulla, immortale quanto le Muse. Balzando d’un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella sedia stessa ove io la vidi il primo giorno, quand’ella dipingeva il proprio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente, tutto tutto era armonia: ed io sentiva una nuova delizia nel contemplarla. [...] S’alzò sorridendo e mi lasciò solo. Allora io rinveniva a poco a poco: mi sono appoggiato col capo su quell’arpa e il mio viso si andava bagnando di lagrime - oh! mi sono sentito un po’ libero.
La dialettica tra ragione e passione si ritrova anche nella produzione lirica di Foscolo, il cui punto di riferimento fondamentale è l’edizione delle Poesie (Milano, 1803) in cui compaiono le due odi di ispirazione neoclassica (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata) e i sonetti, che uniscono il motivo autobiografico e i grandi temi che per Foscolo costituiscono l’essenza del’espressione poetica: il tema dell’esilio dalla terra-madre (A Zacinto; In morte del fratello Giovanni), la pacificazione della morte per lo “spirto guerrier” del poeta (Alla sera), il valore della tomba (In morte del fratello Giovanni), la funzione della poesia (A Zacinto; Te nudrice alle muse, ospite e Dea; Pur tu copia versavi alma di canto). A ciò s’affiancano testi più collegati al coinvolgimento dell’autore nel turbolento periodo storico di quegli anni (Non son chi fui; perì di noi gran parte; Solcata ho fronte, occhi incavati intenti; Che stai? già il secol l’orma ultima lascia) o connessi al motivo sentimentale (Perché taccia il rumor di mia catena; Così gl’interi giorni in lungo incerto; Meritamente, però ch’io potei).
La ricerca dell’equilibrio delle forme e il rapporto con la tradizione classica e moderna delle Poesie diventano due caratteristiche fondamentali della poetica foscoliana, che si riflettono anche nella produzione successiva: il Commento alla Chioma di Berenice di Catullo del 1803 e soprattutto il carme Dei Sepolcri, pubblicato nel 1807. Foscolo assume i panni del poeta-vate, svincolandosi dall’orizzonte autobiografico passionale e intendendo la sua poesia come lo strumento per celebrare i valori etico-civili (l’amore per i propri cari, l’importanza ) su cui costruire un’Italia libera. I tormenti individuali si trasfigurano alla luce della collettività: il sepolcro non ha quindi valore di per sé, ma per ciò che rappresenta agli occhi dei vivi. Esso può dunque essere simbolo della continuità d’affetti per chi non c’è più (vv. 41-42: “Sol chi non lascia continuità d’affetti | poca gioia ha dell’urna [...]”), dei riti di civilizzazione che fondano le società umane (v. 91: “nozze e tribunali ed are”, ovvero il matrimonio, le leggi e i riti religiosi), dei valori politici su cui ricostruire lo spirito nazionale (è l’esempio delle tombe dei grandi italiana nella Basilica di Santa Croce o dei valorosi caduti nella battaglia di Maratona del 490 a.C. ai vv. ), della memoria eterna degli eroi e delle loro gesta:
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
Questa concezione della poesia, ispirata alla filosofia di Giambattista Vico (1668-1744), è teorizzata da Foscolo stesso nelle Note ai Sepolcri 1 ed evolve poi nel progetto incompiuto delle Grazie, un poemetto epico-lirico in tre inni che celebra, attraverso il filtro mitologico (le tre dee greche sono Eufrosine, Aglaia e Talia, divinità rispettivamente della gioia, dello splendore e della prosperità[fn]Il poemetto è appunto dedicato allo scultore Antonio Canova (1757-1822) e alla sua scultura raffigurante le tre Grazie.[/f]), l’armonia e la funzione civilizzatrice della poesia e della bellezza. Le Grazie sono generalmente considerate il punto d’approdo della poetica foscoliana e del suo tentativo di armonizzare le passioni romantiche trasfondendole nell’atmosfera serena del mito e dei valori eterni dell’arte: la poesia diventa così veicolo di valori umani e, attraverso la contemplazione della bellezza, fonte di consolazione per i tormenti umani.
Al percorso che va dallo Jacopo Ortis all’ultimo incompiuto poema va però aggiunto un tassello, che è quello del controcanto ironico e disincantato alle passioni giovanili. L’esempio migliore, dopo gli abbozzi del dialogo filosofico del Sesto tomo dell’io (1799-1801), è quello della figura di Didimo Chierico, un alter ego letterario che Foscolo durante la traduzione del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne, che dura dal 1805 al 1812. Didimo è appunto la figura fittizia del traduttore, di cui Foscolo ci dà delle informazioni nella Notizia che precede il testo vero e proprio. Didimo è una controfigura di Jacopo: tanto quest’ultimo è teso romanticamente all’affermazione del proprio io e del proprio mondo interiore di passioni, quanto Didimo uno studioso che, con l’esperienza della vita, ha imparato a dubitare delle verità assolute. Didimo, che Foscolo indica come autore di altre due opere, l’Ipercalisse e I memoriali di Didimo Chierico, da cui traspare la sua indole singolare e il suo stile al tempo stesso autoironico e lucido, per il quale Foscolo si ispira al registro di Sterne e del suo Tristram Shandy.
1 Qui il poeta spiega: “Ho desunto questo modo di poesia da’ Greci i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de’ lettori, ma alla fantasia ed al cuore”.