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"Nedda" di Verga: riassunto e analisi

Nedda, novella pubblicata il 15 giugno 1874 dalla «Rivista italiana di scienze, lettere e arti», cade in un passaggio determinante della poetica e della carriera letteraria di Giovanni Verga. In questi anni lo scrittore siciliano si va affermando (con i romanzi Tigre reale ed Eros) quale narratore critico dei turbamenti sentimentali della ricca borghesia, che costituisce la parte più rilevante del suo pubblico. Per ora, gli stimoli e le suggestioni del verismo letterario rimangono ancora solo all’orizzonte, e anche gli spunti di ricerca del Postitivismo applicato alle lettere non sono ancora così spiccati.

 

Composta, si dice, nei giorni del Carnevale di quell’anno per soddisfare pressanti esigenze economiche e per reagire ad una crisi di sfiducia che porta Verga a pensare a un ritorno in Sicilia, Nedda racconta una vicenda che molto ricorda il pathos melodrammatico dei romanzi “borghesi” di quegli anni. L'autore recupera e rielabora cioè un genere letterario di gran successo all'epoca: una vicenda dalla forti tinte passionali, che cerca le lacrime e la commozione di chi legge, spesso scegliendo come propri protagonisti figure degli strati più bassi (proletari o contadini) della società. Ovviamente, Verga, che resta per ora distante dalla carica polemica degli Scapigliati milanesi, non vuole tanto suggerire ai destinatari di questa produzione narrativa (l'agiata classe media cittadina) un effettivo cambiamento della situazione, quanto piuttosto colpirne l'impressionabilità, appunto ricorrendo a vicende drammatiche e favorendo l'immedesimazione nel personaggio principale.

In questo caso, la figura su cui concentrare gli effetti melodrammatici è Nedda: giovane contadina stagionale addetta alla raccolta delle olive, Nedda ama Janu, suo compagno di lavoro tra gli uliveti. Persa la madre per una grave malattia e risultati inutili gli sforzi di zio Giovanni per aiutare Nedda, la protagonista vede morire Janu (per le conseguenze di un incidente sul lavoro) e poi anche la bambina da lui avuta, già nata rachitica e presto stroncata da fame ed indigenza. Se allora il tema è quello tipico dei racconti melodrammatici, inedita invece è l’ambientazione nella Sicilia rurale e originale - più ancora - il punto d’osservazione da cui il narratore, nell’Introduzione, sceglie di presentare gli eventi. Prima di introdurci alla vicenda vera e propria, Verga pone una sorta di filtro, in cui ragiona anche su questioni di poetica. Centrale è l’immagine, depurata dalla “rettorica” letteraria di maniera, di un “focolare” attorno cui si riuniscano figure e storie sconosciute al pubblico milanese cui Verga in quegli anni si rivolge:

 

Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. [...] E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna.

È da qui che parte la vicenda di “una ragazza bruna, vestita miseramente” che “aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento”; ma con questo stratagemma dell'evocazione del "focolare", Verga può mettere in rilievo l'esistenza del filtro letterario dell'immaginazione e della ricreazione, sulla pagina scritta, di un mondo popolare e rurale intrinsecamente diverso da quello della Milano moderna che era sotto i suoi occhi:

Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l'altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute; provate, sorridendo, l'effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli e solcherebbero di rughe la vostra fronte, senza muovere un dito, o fare un passo.

Nedda è insomma un testo di passaggio e maturazione verso le opere che assicureranno la fama al narratore siciliano; ma già nella drammatica conclusione di questa storia si può forse intravedere, attraverso la voce di Nedda stessa, qualcuno dei futuri protagonisti di Vita dei campi. Così viene descritta l’ultima scena:

 

Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll’alito e coi baci, e quando s’accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s’inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura.

“Oh! benedette voi che siete morte!” esclamò. “Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!”

Nedda ha un interessante seguito anche dal punto di vista editoriale il successo su rivista fa sì che la novella venga presto ripubblicata da Brigola, e poi confluisca in una raccolta come Primavera, edita nel 1876 e in cui altri saranno i racconti di ispirazione siciliana, ad indicare come la strada verso Vita dei campi e I Malavoglia sia ormai tracciata.