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"La signorina Felicita ovvero la Felicità" di Gozzano: analisi e commento

La signorina Felicita ovvero la Felicità è la poesia più celebre di Gozzano e forse dell'intero Crepuscolarismo, dal momento che sono qui presenti tutti i temi principali di questo movimento letterario, dall’antidannunzianesimo alla malattia, dal rifiuto del ruolo di "poeta" ufficiale al fascino per il mediocre quotidiano, passando naturalmente per la costante tendenza gozzaniana all’ironia e alla parodia di se stesso.

 

Si tratta di un poemetto narrativo in sestine di endecasillabi, pubblicato per la prima volta sulla "Nuova Antologia" del 16 marzo 1909 e poi confluito nella seconda sezione - titolata Alle soglie - della raccolta I colloqui, pubblicata nel 1911. Strutturato internamente in otto parti e recante il sottotitolo di "idillio", il testo tratta una vicenda molto semplice, e tipicamente medio-borghese: il protagonista è un avvocato - all'incirca identificabile con Gozzano stesso - in vacanza nel Canavese (zona del Piemonte in provincia di Ivrea) lì si innamora di una donna, Felicita. La situazione, tipica di gran parte della lirica amorosa della tradizione, dà allora l'occasione a Gozzano di intessere dei piccoli quadretti di vita, dove, tra il serio e il faceto, cantare ironicamente sia la bellezza di Felicita che l'ambiente della villa di campagna in cui le vicende hanno luogo (la "Vill'Amarena" dei "bei giorni d'un autunno addietro"). Il tutto è appunto filtrato dalla dimensione malinconica del ricordo; già nella prima strofa il poeta infatti confessa: "[...]  Nel mio cuore amico | scende il ricordo. E ti rivedo ancora, | e Ivrea rivedo e la cerulea Dora | e quel dolce paese che non dico" (vv. 3-6). Felicita, che diviene il simbolo di tutta la poetica gozzaniana, sospesa tra malcelata sofferenza esistenziale  e gioco ironico-intellettuale, ci viene descritta nella terza parte dell’opera, con toni che si discostano assai da quelli tradizionali:

 

Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,

ma la tua faccia buona e casalinga,

ma i bei capelli di color di sole,

attorti in minutissime trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

(vv. 73-78)

Il poeta-avvocato si abbandona al ricordo della donna e alle sue banali azioni quotidiane: “Talora - già la mensa era imbandita - | mi trattenevi a cena. Era una cena | d’altri tempi, col gatto e la falena | e la stoviglia semplice e fiorita | e il commento dei cibi e Maddalena | decrepita, e la siesta e la partita...” (vv. 97-102). Il sorriso della donna diventa salvifico e benefico (con allusione discreta ad uno dei topoi dello Stilnovismo...) per la salute del protagonista, che, nonostante il distacco della sua sottile ironia, vive con timore l’avvicinarsi della morte a causa della tisi. I "presagi grevi che chiudono la terza parte del componimento sono allora il controcanto cupo della "speranza" suggerita dallo sguardo di Felicita:

 

Vedevo questa vita che m’avanza:

chiudevo gli occhi nei presagi grevi;

aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,

ed ecco rifioriva la speranza!

(vv. 127-130)

Se l’atmosfera serena della villa canavesena in cui si trova il poeta può allontanarlo almeno momentaneamente dal mondo esterno, è tuttavia la realtà mediocre e spesso banale di "Vill'Amarena" che esercita un fascino "crepuscolare" sul protagonista e su Gozzano stesso (“ma laggiù, oltre i colli dilettosi, / c’è il Mondo: quella cosa tutta piena / di lotte e di commerci turbinosi, / la cosa tutta piena di quei "cosi / con due gambe" che fanno tanta pena...”, vv. 182-186). La realtà del poeta è scandita dalla malattia e dalla letteratura, e Felicita, nonostante la sua semplicità e ignoranza, colpisce il poeta, che può concedersi il celebre accostamento (sottolineato dalla rima) tra il filosofo del Superuomo (Nietzsche, appunto, con acuta "frecciatina" a D'Annunzio stesso) e le più prosaiche "camicie" di cui Felicita si prende cura:

 

Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatto la seconda classe,

t’han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...

Mi piaci. Mi faresti più felice

d’un’intellettuale gemebonda...

(vv. 308-313)

Eppure, la condizione di morituro del poeta non gli permette di soddisfare questo amore, che si presenta nella realtà dei fatti come impossibile. Con la fine della vacanza si ha il ritorno del poeta alla sua realtà, con il congedo dalla "felicità" promessa dalla protagonista e anche con una professione di non-identità: “Io fui l’uomo d’altri tempi, un buono | sentimentale giovine romantico... // Quello che fingo d’essere e non sono” (vv. 432-434). Il poeta, nella sua condizione di malato e di intellettuale, non può vivere la sua vita come vorrebbe, come un “giovine romantico”, ma solo fingere di essere quello che in realtà non è; ed proprio qui che l’ironia di Gozzano diventa una chiave di lettura di un'intera visione del mondo.