Manifesto dell’estetica dannunziana, Il Piacere è anche il risultato di un lungo lavoro di accumulo di materiali, spesso ricavati dall’esperienza giornalistica mondana di quegli anni, e di suggestioni, che l’autore riesce a sintetizzare e a tradurre sulla pagina nei pochi mesi di stesura del romanzo. La gran mole di echi e rimandi (da Flaubert, Maupassant e Huysmans fino agli inglesi Shelley e Keats, per non citare l’influenza di Paul Bourget o l’ispirazione della filosofia di Schopenauer) che si riversa nelle pagine del Piacere spiega bene il clima culturale e l’ìmmaginario estetico che garantì al romanzo e al suo autore una vasta eco. A ciò s’aggiunga l’abilità pubblicitaria dello scrittore stesso, che, in contemporanea con la pubblicazione presso Treves (il maggior editore dell’epoca), diffonde, con la “complicità” di amici pittori (la dedica del romanzo è appunto per l’amico Michetti), una stampa ad acquaforte firmata dal protagonista stesso del romanzo, Andrea Sperelli, presentandolo dunque al pubblico come una figura in carne e ossa, che fa davvero della propria vita “un’opera d’arte”. Quest'intento programmatico si riflette però anche all’interno del testo vero e proprio; l’incipit del romanzo presenta subito la figura dell’esteta Sperelli, concedendo largo spazio al gusto descrittivistico ed altamente evocativo della prosa dannunziana, che coglie l’occasione per un quadro scenografico d’impatto:
L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la Piazza Barberini, su la Piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorìo confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Alla sequenza di ben quattro aggettivi (“velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile”) per dare l’idea del “tepor” che attenua i contorni delle cose, segue l’itinerario, finemente studiato, che per i luoghi-simbolo della Capitale ci conduce fino all’esclusiva residenza (ovviamente, in un quartiere alla “moda”) di Andrea, il palazzo Zuccari. Alle sensazioni visive si sommano quelle olfattive (“Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi”), mentre il gusto raffinato dello Sperelli è confermato dalla prima delle moltissime citazioni esplicite di beni, merci ed oggetti d’arte che si susseguono nel Piacere (“certe coppe di cristallo [...] in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine tondo di Sandro Botticelli alla galleria Borghese”). Lo scenario prepara l’ingresso in scena del protagonista, che “aspettava nelle sue stanze un’amante”, ovvero quella Elena Muti che non vede da tempo; e anche qui D’Annunzio si concede un’altra descrizione (statica e dettagliata) della camera dover avrà luogo il solenne incontro:
Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in majolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
È nell’“ansia dell’aspettazione” che la memoria di Andrea va al “venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza”, data e luogo dell’ultima volta che egli ha visto Elena. La “lucidezza infallibile” dell’evocazione si congiunge all’attesa spasmodica e piena di desiderio per il nuovo appuntamento. Sono proprio le superiori risorse percettive del protagonista principale, con cui la voce narrante è sempre solidale, a presentarci il sottile e masochistico tormento amoroso, di tipico gusto decadente, che pervade l’intero primo capitolo:
Per la natura del suo gusto, egli ricercava nelli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l’alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poichè egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell’amore senza gli scenarii. Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sè; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.
E si capisce pure come D’Annunzio, attraverso Sperelli, stia fornendo da subito le coordinate di quello che sarà un fortunato e duraturo legame d’intesa con il pubblico borghese, stregato dai modi del “vivere inimitabile” del Vate e delle sue creazioni letterarie.