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La filosofia ad Atene: Protagora, Gorgia, Socrate

Volendo coniare a posteriori una formula per la scuola eleatica, si può a buon diritto affermare che, dopo la lezione di Parmenide, nulla nel pensiero filosofico potrà essere come prima. E gli effetti di questo cambiamento si vedono soprattutto nell’eredità gnoseologica lasciata agli “eredi”: la netta frattura tra la verità (aletheia) e l’opinione umana (doxa) è allora al centro delle riflessioni di figure quali Protagora, Gorgia, Socrate e Platone, che compongono assieme una delle stagioni più fertili del pensiero della Grecia classica. Atene diverrà presto la culla di tale rivoluzione culturale.

 

Siamo, con l’inizio del quarto secolo a.C., ad un punto di svolta fondamentale non solo per la storia della filosofia nella penisola ellenica: all’affermarsi del sistema della polis (e quindi di una cultura cittadina) fa da sfondo la crisi della cultura aristocratica tradizionale, mentre già si affacciano all’orizzonte alcuni di quelli che con Platone diventeranno elementi cardine della cultura occidentale. Come in ogni grande frattura storica, gli schieramenti a confronto sono diametralmente opposti. Da una parte, i cosiddetti “sofisti”, intellettuali ed educatori, per lo più di origine straniera o comunque non ateniese, che condividono le tesi sul divenire e, in accordo ad esse, sostengono che tutte le opinioni possono essere egualmente valide, dato che nessuno possiede il principio primo delle cose. Dall’altra, sulla scia degli insegnamenti del maestro Socrate, troviamo Platone e la sua filosofia, assiduamente impegnata a ricomporre un’idea di verità comune e condivisa, sopra un fondamento ontologico più saldo e sicuro di quelli precedenti (fossero questi quelli dei sofisti o quelli ereditati dalla tradizione). Socrate, figura rimasta giustamente centrale in ogni storia del pensiero, sceglie una strada personale, e in un certo senso nuova: riesaminare e riconciliare la logica parmenidea (che pure molto ha contribuito al progresso delle idee) in un’ottica che tuteli la molteplicità dei fenomeni reali e metta a fuoco i doveri morali dell’individuo, assegnando centralità assoluta al “dialogo” come metodo per delimitare una verità possibile.

 

Così, entrambe le posizioni tendono ad abbandonare la riflessione sulla physis per porre al centro della loro indagine uomo della polis, anche se nettamente opposte sono le conclusioni cui si giunge dall’una e dell’altra parte. Sono i sofisti quelli che per primi reagiscono alla tradizione che hanno alle spalle: questi filosofi sono veri e propri professionisti della parola che si occupano principalmente - e dietro lauti compensi: fatto scandaloso per l’epoca - dell’istruzione dei giovani cittadini abbienti, nell’ottica di formarli ai loro futuri doveri politico-sociali di amministratori del bene pubblico. Al centro del sistema formativo, vi è allora l’arte retorica, che, coltivata con scrupolo, dovrebbe portare l’uomo alla saggezza. Ciò diventa necessario perché accettare l’esistenza del divenire fino alle sue estreme conseguenze significa ammettere che la verità stessa è suscettibile di interpretazioni sempre diverse e multiformi: tutte le opinioni sul mondo risultano allora essere egualmente valide, a patto che siano sostenute da un uso appropriato del linguaggio.

 

L’idea di una verità unica, sia in Protagora sia, ancor di più, in Gorgia, viene messa allora drasticamente in dubbio, e al suo posto prende sempre maggiore spazio la capacità persuasiva della comunicazione umana (e del retore che la maneggia al massimo grado). Protagora di Abdera (486 a.C. - 411 a.C.) è una delle figure di spicco del movimento sofistico; al centro della sua riflessione c’è la relativizzazione della verità stessa, dato che (dice Protagora, il cui ci è noto soprattutto attraverso i resoconti del II sec. d.C. di Sesto Empirico) noi conosciamo il mondo solo e soltanto in relazione all’esperienza che ne facciamo. La celebre frase protagoriana per cui l’uomo è “misura di tutte le cose” spiega infatti che “l’uomo è la norma che giudica di tutti i fatti: di quelli che sono, per ciò che sono, di quelli che non sono, per ciò che non sono” (DK fr. 80A14)*.

Ne consegue la dimensione squisitamente pragmatica che Protagora assegna alla conoscenza di tutti noi: se non possiamo scoprire le ragioni di tutte le cose, meglio attenersi a ciò che possiamo indagare, restringendo il campo della verità (che Protagora non nega affatto) a ciò che ciascuno di noi può realmente conoscere e sperimentare.

 

Più radicale (e per certi versi distruttiva) l’impostazione che Gorgia (circa 485 a.C. - 375 a.C.) dà alla pratica sofistica: per il filosofo di Lentini (Sicilia) occorre smontare sia i discorsi sulla Natura della scuola pluralista sia le posizioni ontologiche degli eleatici. Insistendo sullo scarto tra il linguaggio umano e la verità, intangibile per il genere umano, Gorgia arriva a negare la possibilità stessa del “logos” di giungere a qualche dato certo. I postulati del suo ragionamento (riassumibili nelle tre frasi: “nulla è”,  “anche se qualcosa fosse, sarebbe inconoscibile”, “anche se qualcosa fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile”) sono allora i presupposti che, in accordo con la sua professione, celebrano implicitamente il potere sovrano della parola di creare, volta per volta, l’effetto di “verità” più adatto a conquistare l’opinione e la fiducia di chi si ha di fronte.

 

E queste sono le basi da cui partirà, di qui a poco, la filosofia di Platone: il rinnovamento proposto dall’allievo di Socrate non è scollegabile dalla critica che egli stesso muove ai raffinati ragionamenti dei sofisti, di cui egli (e questo fatto non è indifferente per l’idea che noi oggi ci facciamo di questi filosofi) è anche, attrarverso i suoi celebri dialoghi, uno dei principali testimoni.

 

* Le citazioni qui presentate seguono la classificazione Diels-Kranz, che suddivide le “testimonianze” (caratterizzate dalla lettera A) e i “frammenti” (lettera B), associando ad ogni autore un numero progressivo.