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Le "Catilinarie" di Cicerone: riassunto e commento

Introduzione

 

Le Catilinarie sono una raccolta di quattro orazioni recitate da Cicerone nel Senato e nel foro di Roma tra il novembre e il dicembre del 63 a.C. in occasione dei convulsi eventi che hanno portato alla repressione della congiura di Catilina. Le Catilinarie vennero poi pubblicate da Cicerone nel 60 a.C. insieme ad altre otto orazioni definite come “consolari”, perché pronunciate in varie occasioni durante l’anno del consolato di Cicerone. 

 

La prima Catilinaria

 

La prima Catilinaria è la redazione scritta dell’orazione tenuta da Cicerone di fronte al senato l’8 Novembre del 63 a.C.

Il 7 Novembre di quell’anno, Catilina e i suoi complici si erano riuniti nella casa di Leca 1 e avevano deciso di uccidere il console all’interno della sua abitazione. Ma Cicerone venne a sapere del complotto grazie alla propria informatrice Fulvia 2 e pose l’ingresso di casa sua sotto stretta sorveglianza, facendo così fallire l’attentato. Il mattino dopo Cicerone decise di convocare d’urgenza il senato per denunciare pubblicamente Catilina e la sua congiura. La riunione avvenne in un clima molto teso. Non appena Catilina entrò in senato, tutti i senatori si allontanarono in segno di disapprovazione, lasciando liberi i posti al suo fianco.

A questo punto il console cominciò a pronunciare la prima Catilinaria, che viene considerata da molti commentatori antichi e moderni come il capolavoro della retorica ciceroniana. La qualità dell’opera si mostra sin dall’esordio: per una orazione di questo tipo infatti la retorica classica richiedeva un inizio dimesso 3 e una captatio benevolentiae nei confronti dei presenti. Cicerone al contrario non si rivolge ai senatori che lo circondano, e parte ex abrupto con una apostrofe 4 rivolta allo stesso Catilina:

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? 5

A questa apostrofe segue una sequenza incalzante 6, composta da ben cinque interrogative retoriche, che terminano infine nella celebre esclamazione “O tempora! O mores!” 7. Il fine del console era probabilmente quello di mettere Catilina sotto pressione, per fargli credere di possedere più prove nei suoi confronti di quelle che realmente aveva, con la segreta speranza che in questa maniera l’accusato avrebbe fatto passi falsi mostrando a tutti la propria colpevolezza. Altrettanto frequente è l’apparente accusa rivolta a se stesso di non far nulla contro Catilina, sebbene la storia passata sia piena di esempi di cittadini che in casi simili hanno fatto il proprio dovere, sia da magistrati che da privati cittadini.

Per accrescere la drammaticità del momento, Cicerone inserisce nell’opera ben due prosopopee (o personificazioni) della patria. Nella prima il console si immagina che la repubblica si rivolga allo stesso Catilina, invitandolo ad andarsene da una città che non lo vuole più. Nella seconda lo stato si rivolge allo stesso Cicerone, accusandolo di non fare abbastanza per salvarlo. Proprio in risposta a queste parole, Cicerone svela ai senatori per quale motivo si stesse comportando in questa maniera: il console non poteva attaccare Catilina in maniera ufficiale, dato che in senato sedevano molte persone che in passato avevano favorito involontariamente Catilina e che senza prove certe si sarebbero levati ancora una volta ad aiutarlo. In secondo luogo eliminare Catilina non avrebbe salvato la repubblica, dato che sarebbero rimasti ancora in vita i suoi complici. Ma se Catilina avesse abbandonato Roma portandosi dietro tutti i suoi compagni, la città si sarebbe liberata finalmente da una minaccia mortale. L’orazione si chiude significativamente con una preghiera a Giove Statore, nel cui tempio si stava svolgendo la riunione del senato e a cui si affidava la salvezza della patria. 

 

La seconda Catilinaria

 

La seconda Catilinaria è la redazione scritta dell’orazione tenuta da Cicerone nel foro di Roma il 9 Novembre del 63 a.C.

In seguito alla prima Catilinaria, Catilina ha deciso di allontanarsi da Roma per raggiungere l’esercito radunato dal complice Manlio a Fiesole. Cicerone allora riunisce il popolo nel foro per descrivere la situazione. Il console apre l’orazione felicitandosi per il fatto che Catilina abbia abbandonato Roma senza fare ulteriori danni. Cicerone si rende conto il piano della prima Catilinaria per eliminare l’avversario era sostanzialmente riuscito. Per il resto l’orazione appare come una descrizione a tinte forti della depravazione morale di Catilina e dei suoi seguaci. Questi ultimi in particolar modo vengono inseriti all’interno di un vero e proprio catalogo, in cui si dimostra come la maggior parte dei catilinari non sia composta da altro che giovani corrotti e dediti al piacere, che hanno sperperato il loro patrimonio in orge e che ora vogliono pagare i debiti contratti facendo soldi grazie a nuove proscrizioni, come era successo ai tempi di Silla. L’orazione si conclude dimostrando come l’esercito romano avrà sicuramente la meglio sui catilinari, perché dalla sua parte ci sarà la virtù, mentre dall’altra la depravazione. Inoltre gli dei immortali vegliano su Roma e non permetteranno che essa vada incontro alla distruzione.

 

La terza Catilinaria

 

La terza Catilinaria è la trascrizione dell’orazione tenuta in foro da Cicerone il 3 Dicembre del 63 a.C. 

L’opera si apre in medias res con l’oratore che chiede al popolo di ringraziarlo per aver salvato la città. Solo in un secondo momento comincia una narrazione scabra e concisa degli eventi degli ultimi giorni, che spiega il motivo per cui il console è meritevole di lode. I catilinari infatti avevano cercato di coinvolgere nel loro piano gli Allobrogi, una popolazione gallica da poco sottomessa a Roma e ancora non pacificata. Cicerone, saputa la cosa, predispose un agguato notturno al ponte Milvio e catturò gli ambasciatori dei galli in compagnia del catilinario Tito Volturcio, che portava con sé lettere destinate a Catilina e ai galli. Cicerone aprì pubblicamente in senato le lettere e molti catilinari crollarono e confessarono le proprie colpe. Ancora una volta Cicerone lega il successo del suo operato al volere degli dei immortali, mostrando come l’arresto dei catilinari sia avvenuto lo stesso giorno in cui è stata posta in Campidoglio una statua di Giove Ottimo Massimo, dedicata alcuni anni prima dal senato per evitare la distruzione dello stato. Quello che il popolo deve fare è continuare a pregare Giove, dato che alla salvezza dello stato ci penserà lui stesso. 

 

La quarta Catilinaria

 

La quarta Catilinaria è la trascrizione dell’orazione tenuta da Cicerone in senato il 5 Dicembre del 63 a.C. per spingere alla condanna a morte dei catilinari arrestati. 

Una volta posti i catilinari sotto custodia, bisognava decidere cosa fare di loro. Per questo motivo si apre in senato una discussione molto dura. Da una parte il senatore Silano, appoggiato dallo stesso Cicerone e da Catone l'Uticense, propose la condanna a morte. Il giovane Giulio Cesare, probabilmente vicino alle posizioni dei catilinari, voleva evitare la condanna a morte dei catilinari e propose di punirli con la confisca dei beni e l’arresto in municipi posti fuori da Roma. La situazione era critica, perché secondo la legge della provocatio ad populum i cittadini romani avevano la possibilità di appellarsi al popolo in caso di condanna a morte. Tuttavia, il principio fondamentale a cui si attiene Cicerone durante tutta l’orazione è che i catilinari, per i crimini da loro progettati, non potevano più essere considerati cittadini romani, e per questo la legge non si poteva applicare nei loro confronti. Dopo un intervento durissimo di Catone l’Uticense, i cngiurati furono condannati alla pena capitale. Catilina morirà nella battaglia di Pistoia nel gennaio del 62 a.C.

L’appello finale del console è quindi rivolto fondamentalmente alla concordia di tutti i cittadini onesti, secondo il progetto politico della concordia ordinum.

 

Bibliografia

 

- Marco Tullio Cicerone, Le Catilinarie, a cura di L. Storoni Mazzolani, Milano, Rizzoli, 1979.
- M. Fini, Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta, Milano, Mondadori, 1996.
- G. Pontiggia - M. C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, vol. II, Dalla tarda repubblica al principato, Milano, Principato, 1996.  

1 Marco Porcio Leca era un importante senatore aderente alla congiura di Catilina.

2 A quanto ci racconta Sallustio (86-34 a.C.) nel De Catilinae coniuratione, Fulvia era l’amante di Quinto Curio, uno dei complici più fedeli di Catilina, che aveva svelato all’amante i segreti della congiura per legarla a sé dopo aver terminato tutte le proprie ricchezze. Fulvia divenne però presto informatrice personale di Cicerone.

3 L’inizio dimesso era dovuto alla necessità di creare all’interno dell’opera una sorta di climax ascendente, che doveva terminare con la perorazione finale, in cui il retore doveva raggiungere il massimo livello di tensione.

4 All’interno di una orazione l’apostrofe si ha quando il retore si rivolge a una persona diversa rispetto a quella cui è destinato il resto dell’opera. In questo caso l’orazione nel suo insieme è rivolta ai senatori seduti nel tempio di Giove Statore, mentre le numerosi apostrofi presenti dell’opera sono indirizzate a Catilina.

5 "Fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza?"

6 Lo stile diventa incalzante anche grazie all’uso di frequenti figure retoriche, come l’uso anaforico di Nihil, ripetuto ben sei volte di seguito all’interno della quarta interrogativa retorica, e la presenza dell’omoteleuto, ovvero la ripetizione di più parole con la stessa terminazione (in questo caso egeris, fueris, convocaveris, ceperis). Tutte queste continue ripetizioni rendono il ritmo ancora più serrato e incalzante. Lo stile ordinato e armonico, caratterizzato da periodi spesso lunghi e costruit tramite l’uso di simmetrie interne, rende bene il principio della concinnitas ciceroniana.

7 “O tempi! O costumi!”. L'esclamazione, divenuta quasi proverbiale “O tempora! O mores!”, viene ripresa da Cicerone anche in altre opere (In Verrem II, 4,56, Pro rege Deiotaro, 31). Il porre il passato sotto una luce ideale, soprattutto se messo a confronto con un presente corrotto e degenerato, è scelta tipica della storiografia contemporanea a Cicerone. Basti pensare alla introduzione del De Catilinae coniuratione di Sallustio o allo spirito che anima l’intera opera di Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.), gli Ab Urbe condita libri.