Pubblicata sulle colonne del “Corriere della Sera” del febbraio del 1914, Il treno ha fischiato è una novella assai significativa per illustrare alcune tecniche narrative tipiche dello scrittore agrigentino e per spiegare, al contempo, la visione del mondo pirandelliana. Il protagonista della vicenda, come spesso avviene in Pirandello, è un esponente della piccola borghesia impiegatizia, senza alcuna apparente qualità e senza nessun tratto d’interesse: Belluca è infatti un grigio ragioniere, scrupolosissimo sul lavoro ed irreprensibile nella vita privata. Senonché un giorno, preso da un attacco di rabbia folle, egli, urlando che "il treno ha fischiato", si scaglia contro il capoufficio, tanto da dover essere ricoverato in un manicomio, dove la diagnosi dei medici, incapaci di fornire ad amici e conoscenti dell’uomo una giustificazione razionale a degli eventi a prima vista assurdi, parla di encefalite o “febbre cerebrale”. In realtà la narrazione - che procede a ritroso, secondo un percorso assai intricato, a spiegare le ragioni del gesto di Belluca - ricostruisce a poco a poco il quadro effettivo che si cela dietro le apparenze. Se il clima sul posto di lavoro è oppressivo, la vita tra le mura domestiche non è meno alienante: Belluca deve assistere tre donne completamente cieche (la moglie, la suocera e la sorella di lei) nonché provvedere al mantenimento di due figlie vedove con figli. Ecco come ci viene descritta la sua squallida esistenza dalla voce narrante, quella di un vicino di casa:
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
[...] Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Così, un evento banale (altro elemento ricorrente della narrativa pirandelliana: si pensi al finto suicidio di Mattia Pascal o alla "scoperta" della forma del proprio naso da parte di Vitangelo Moscarda) come il fischio di un treno, che proietta la mente di Belluca in mondi “altri” liberi da ansie e preoccupazioni, è ciò che fa scattare la molla della folle ribellione alla realtà. Al punto di vista della gente comune, sconcertata dalla reazione del personaggio principale, si affianca e si sostituisce quello del narratore, cui la follia del protagonista pare un "naturalissimo caso", date appunto le miserissime condizioni di vita di Belluca, che con il suo comportamento reclama uno spazio di evasione da una situazione impossibile da sostenere. La costruzione narrativa della novella, molto ben calcolata, obbedisce proprio a questa necessità di illustrare tra la realtà (l'apparente impazzimento di Belluca per "febbre cerebrale") e le motivazioni che stanno dietro al gesto. La voce narrante, interna al mondo rappresentato, ricostruisce il filo delle vicende, in cui il lettore è proiettato in medias res; mentre l'ordine naturale degli eventi è alterato dal flash back finale che spiega l'enigma del fischio del treno
Com’è norma, non manca la conclusione “umoristica”, tipica di molte novelle pirandelliane: Belluca, su intercessione di un amico, viene reintegrato in ufficio dopo le scuse al superiore che, consapevole della situazione, concederà al sottoposto delle piccole pause in cui Belluca, ricordando il “fischio” del treno, possa fuggire per brevi istanti dalle pressioni del mondo reale. Dietro all’enigma di Belluca (che si reinserisce nel mondo reale, ma tenendosi uno spiraglio di evasione nel sogno ad occhi aperti e nella follia illusoria) c’è un tratto costitutivo del ragionamento di Pirandello sull’uomo contemporaneo: forse è la normalità quotidiana a rappresentare la vera follia.