"Uno, nessuno e centomila": analisi e commento critico

Uno, nessuno e centomila si presenta da subito come uno dei romanzi più enigmatici e complessi (“umoristici” alla maniera dell’autore) di Luigi Pirandello. Centrale nell’opera è infatti la riflessione dell’autore, attraverso il suo protagonista principale Vitangelo Moscarda sull’impossibilità di interpretare in senso univoco non solo la realtà che ci circonda, ma la nostra stessa identità soggettiva.
 
La genesi del libro (pubblicato inizialmente sulla “Fiera Letteraria” e con un sottotitolo che rimandava allo scrittore inglese Laurence Sterne) è di per sé articolata e sfaccettata, affondando le sue radici agli anni in cui Pirandello lavora al noto saggio L’umorismo (1908) e ha da poco terminato Il fu Mattia Pascal (1904). Dopo la grande stagione teatrale e la produzione novellistica confluita nelle Novelle per un anno (e dopo la parentesi drammatica del primo conflitto mondiale), Pirandello, nel frattempo avvicinatosi al regime fascista proprio dopo il delitto Matteotti, porta a conclusione una riflessione letterario-filosofica ventennale. La crisi dell’identità si rifà allora ai concetti di “forma” e “vita”, e alla convinzione che la nostra esistenza materiale sia una “trappola” che imbriglia i nostri “centomila” alter ego rifranti e spezzettati. La scomposizione e la riflessione umoristiche (cui risponde il “sentimento del contrario”) mescolano comico e tragico, ed alterano i rapporti canonici tra narrazione e metanarrazione; il relativismo dei punti di vista (a partire dall’opinione che gli altri hanno del naso di Vitangelo...) spiega allora come la pazzia sia semplicemente uno dei modi possibili di stare al mondo, e come ogni narrazione umana non possa “concludere” assolutamente nulla.
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Per analizzare il romanzo Uno, nessuno, centomila, dobbiamo - ahimè... - subito contraddire le parole che Pirandello mette in bocca al suo protagonista, Vitangelo Moscarda, a proposito della inaffidabilità e della mancanza di senso univoco che contraddistinguono in negativo, e quindi vanificano, il raccontare i cosiddetti dati di fatto di un individuo. Nel caso infatti dell’individuo di carta e inchiostro Uno nessuno centomila, i suoi connotati, i suoi dati di fatto, come la data di nascita la genealogia e la formazione, sono di valore interpretativo così lampante e affidabile che ci è impossibile non tenerne conto e non partire da lì. Uno, nessuno, centomila vede dunque la luce a puntate sulla rivista «La fiera letteraria» tra il 13 dicembre 1925 e il 13 giugno 1926, con il sottotitolo di derivazione sterniana di Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri, sottotitolo che venne poi eliminato nella prima edizione in volume del 1926.

 

La lavorazione di Uno, nessuno, centomila, tuttavia, va fatta risalire molti anni più indietro, probabilmente già a partire dal 1909, ovvero subito dopo la pubblicazione del saggio L’umorismo, del 1908, che può essere considerato il sostrato programmatico di tutti i percorsi pirandelliani, e anche spiegazione a posteriori della poetica romanzesca del Fu Mattia Pascal, il romanzo pubblicato nel 1904. Tra le due date del 1909 e del 1926, sotto questo ponte non è poca l’acqua che passa: c’è la grande stagione teatrale pirandelliana e il suo successo (con titoli come Così è se vi pare, Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV), ma vi è anche la sistemazione della produzione novellistica nel progetto delle Novelle per un anno.
Da un punto di vista storico, nel frattempo, passa la Prima Guerra Mondiale e si ha l’avvento del fascismo, a cui tra l’altro Pirandello aderirà con grande scalpore nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti. Uno, nessuno, centomila dunque, che voleva forse porsi a prologo di una stagione, finisce per esserne una sorta di epilogo e nella sua lunga lavorazione cosparge di sé e dei propri materiali tante altre opere pirandelliane. Considerati tutti questi dati di fatto, non meraviglia dunque che Uno, nessuno, centomila aderisca all’estetica e ai criteri compositivi dell’umorismo, in senso pirandelliano. Come nel Fu Mattia Pascal e in tanta produzione pirandelliana, al centro del romanzo c’è dunque il tema della crisi dell’identità, un’identità negata, e addirittura rifiutata, in quanto forma che arresta la vita, trappola che vuol rendere uno e fisso ciò che invece è centomila e in continuo divenire. Anche in questo romanzo è dunque al lavoro l’arte della scomposizione umoristica attraverso la riflessione, così da suscitare il sentimento dei contrari – il tragico dietro al comico e viceversa – e frantumare la stessa struttura romanzesca tra narrazione e metanarrazione. Nella scomposizione, nell’avvicendarsi di sentimenti del contrario, nei contrasti, nessun punto di vista può più essere considerato certo, tutti sono diversi ma ugualmente sullo stesso piano, e la consapevolezza di come la vita sia un magma incoerente, porta il protagonista ad essere scambiato per pazzo, a non poter trovare più conclusioni né dentro di sé né fuori di sé. Tutti questi pezzi del puzzle sono messi sul tavolo da Pirandello fin da subito, dal celebre capitolo d’avvio del romanzo, che porta il nome di Mia moglie e il mio naso. Questo avvio è un avvio in medias res, quindi senza prologhi né premesse così come – specularmente – il capitolo finale rifiuta di dare conclusioni. E già qui vediamo una differenza con Il fu Mattia Pascal, che iniziava con ben due premesse.

 

In questo romanzo il fattore scatenante della frantumazione dell’io, della crisi dell’identità, è la scoperta da parte del protagonista Vitangelo Moscarda che il proprio naso pende leggermente verso destra, cosa di cui mai si era accorto. E questa topica del naso ci rimanda a tanti precedenti, a pagine dell’Umorismo ma anche a pagine di Sterne, uno dei modelli del romanzo. Il protagonista, in questo avvio, è subito mostrato è allo specchio, oggetto centrale in questa come in tante altre opere di Pirandello. Ma attenzione che il riflesso a cui Vitangelo è sottoposto è ben doppio: oltre all’oggetto reale specchio, ci sono infatti anche gli occhi della moglie Dida, occhi che trasformano Vitangelo in una delle forme, delle identità da lui più disprezzate, quello del caro e sciocco Gengè. Nel momento in cui questo dramma della scomposizione dell’identità si compie, abbiamo però anche la sensazione dei contrari umoristici, intravediamo il comico dietro la tragedia: la moglie, infatti, viene descritta sorridere e parlare placidamente. Di fronte alla meraviglia di Vitangelo per ciò che sta avvenendo, la moglie poi prosegue nella scomposizione della sua figura, elencando i tanti i difetti del marito. La pagina scritta ne diventa specchio tipografico, come nel caso delle sopracciglia ad accento circonflesso rese proprio attraverso il segno grafico. Questo elenco dei difetti di Vitangelo è tra l’altro incalzato da un paio di domande senza  esplicitazione del soggetto parlante: "Che altro? Ancora?".

 

Questa dimensione interrogativa, questa presenza di domande, sarà da qui in avanti onnipresente e invasiva - nell’intero romanzo si contano più di 500 di punti di domanda. Uno, nessuno, centomila si caratterizza quindi come un inarrestabile monologo interlocutorio. E si badi che l’interrogazione di per sé è un ulteriore elemento che amplifica il tema del doppio: ogni domanda, infatti, presuppone lo sdoppiamento tra qualcuno che interroga e qualcuno che risponde. Tuttavia se il romanzo è un monologo interlocutorio, è interlocutorio con chi?

 

Per saperlo, per trovare finalmente un soggetto interrogante, basta aspettare il tempo di qualche riga. Infatti, dopo un po’, mentre Vitangelo Moscarda descrive espressivamente il proprio continuo monologare come “un abisso di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito come una tana di talpa”, un soggetto finalmente nominato con il pronome voi commenta “Si vede che avevate molto tempo da perdere”. Questo voi non identifica altro che i lettori. Attenzione che il coinvolgimento del lettore è una tecnica compositiva dominante dell’intero romanzo, che si connota proprio per un continuo dialogare, sbirciare, ammiccare all’esterno, dall’interno del monologo di Vitangelo. Il lettore diviene così un altro specchio che scompone Vitangelo, come dichiarato esplicitamente in questo brano dal capitolo II del IV libro.


Ma il lettore è anche uno spettatore posto in una platea, posto in cui il narratore Vitangelo scende continuamente, come i suoi omologhi teatrali. Vi è una vera e propria invasione del narratore nella vita del lettore che, con un ribaltamento impensabile, si può trovare anche lui stesso ad essere osservato dal narratore. Vi vedo, dice Vitangelo ai suoi lettori in questo brano del capitolo X del III libro. La pagina, il testo, non sono dunque un limite di alcun tipo:  la stessa divisione (anzi frammentazione) in capitoli (ben 63) è in qualche modo fittizia (così come in qualche modo fittizia è l’organizzazione in tomi delle novelle per un anno). Il testo umoristico, magmatico come il flusso stesso della vita, sconfina e straripa e sconvolge le forme, anche le forme della struttura romanzesca. A riprova, il paratesto, i titoli dei capitoli, oltre ad essere spesso interlocutori possono rompere le convenzioni e diventare parte integrante del testo, legandosi alla conclusione del capitolo precedente come in questo esempio:

 

Caro mio, la verità è questa: che sono tutte fissazioni. Oggi vi fissate in un modo e domani in un altro.
Vi dirò poi come e perché.
 
VI. Anzi ve lo dico adesso.

O legandosi invece all’attacco del capitolo, come in questo esempio:
 

VIII. E dunque?

 

Dunque, niente: questo. Se vi par poco!

L’umorismo sconvolge dunque tutta la pagina stampata, ma - come Pirandello stesso specifica nel suo saggio di poetica, l’umorismo non risiede solo nella realtà e nell’arte, ma anche nello spirito dell’umorista. E come spirito umorista si ritrae proprio il nostro Vitangelo Moscarda, già nel primo capitolo. Ad un certo punto, infatti, dice di sè:

 

Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.

Vitangelo si dipinge dunque come un inetto al pari di tanti altri personaggi romanzeschi dell’otto-novecento, ma questa sua inettitudine diventa anche un pregio: perchè gli permette infatti di cambiare continuamente le prospettive, i punti di vista, di guardare le cose in maniera rovesciata: come lui dice è in grado di vedere i sassolini come fossero montagne e quindi di avere uno spirito pieno di mondi o di sassolini, quindi di contrari.

 

Questa capacità di guardare i contrari, si connette ovviamente e umoristicamente alla riflessione, e con essa alla scomposizione: compresa quella della propria stessa identità, quello che Vitangelo definisce qui come il proprio male, la propria follia. Ma procedendo ancora una volta per contrari e contrasti, è proprio dal male che nasce la salute, intesa come guarigione ma anche nel senso etimologico della salvezza (notiamo di striscio che questa anticipazione della follia e della guarigione ci indica da subito come la focalizzazione del racconto sia esterna, incentrata sull’io narrante più che sull’io narrato, al contrario di quanto avveniva invece nel Fu Mattia Pascal, romanzo per gran parte a focalizzazione interna). In ogni caso, dalla folle disgregazione del proprio io e delle sue forme, dalla crisi dell’identità, al termine del racconto (ma non alla conclusione della storia, perchè la vita in quanto tale non conclude) Vitangelo esce del tutto dalla società e si riconnette al flusso vitale. Moscarda dichiara di non avere né volere più nomi e in questa accettazione riesce a vivere. Se dunque Mattia Pascal si era fermato alla contemplazione della propria tomba ed aveva accettato la sottrazione dell’identità ("Io sono Il fu Mattia Pascal", dice); Vitangelo Moscarda fa un’operazione in più e svolge la moltiplicazione: uno, nessuno e centomila.