Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1925), insieme ad alcune delle opere teatrali e novellistiche, sono i testi in cui la tradizione riconosce l’affermarsi, il compimento e la migliore espressione dei temi, dei motivi e delle tensioni che attraversano la poetica di Luigi Pirandello: il moderno relativismo, il paradosso incombente, l’irriducibilità dell’identità umana a una qualche compostezza, il ricorso alla tecnica umoristica. Nell’ampia produzione dell’autore siciliano, in realtà, la linea della scrittura romanzesca ci ha consegnato altre opere che – insieme alle due citate – compongono un percorso articolato e ricco, con altri esiti almeno di pari livello rispetto ai testi del 1904 e del 1925. Pur con delle oscillazioni, ne esce soprattutto un quadro con elementi di continuità, a livello di tematiche e della poetica pirandelliana. L’esclusa e Il turno sono composti rispettivamente nel 1893 e nel 1895, e risentono ancora dell’influenza del Verismo, per quanto nelle storie già si affaccino alcune situazioni paradossali anticipatrici di quelle del Pirandello più maturo. L’esclusa, in particolare, è ripubblicata, rielaborata, nel 1908: ne esce un romanzo più legato alle riflessioni in corso dell’autore, in particolare a quella – per sua esplicita indicazione – sulla poetica dell’umorismo. La storia del romanzo è incentrata sui tradimenti coniugali: quello della protagonista Marta Ajala, in realtà non consumato, per il quale tuttavia viene esclusa dalla famiglia e della comunità; e quello che invece poi lei consuma (rimanendo incinta), paradossalmente poco prima di essere riaccolta dal marito Rocco Pentagora. Nessuna logica, se non quella della casualità, governa dunque la realtà della storia. In questo contesto si produce dunque l’esclusione (poi ancora tema tipicamente pirandelliano) di Marta. La quale, maestra e acculturata, non a caso incarna i caratteri dell’intellettuale: l’escluso per eccellenza, che dalla propria prospettiva vede più a fondo le cose, ne scorge "il ridicolo nascosto", appunto in chiave umoristica. Da segnalare infine un altro tema, già nell’Esclusa, di matrice tipicamente pirandelliana: i fatti avvengono non perché le loro cause (come il primo tradimento) siano veramente accadute, ma perché si pensa siano accadute. La "verità non è più un prodotto della oggettività, ma è il risultato di un’opinione, un prodotto sociale e soggettivo" 1.
Il 1904 è dunque l’anno della prima pubblicazione del Fu Mattia Pascal. Dalla penna del Pirandello romanziere esce poi I vecchi e i giovani (1913); un’opera, però, meno avanzata rispetto al racconto del "caso strano e diverso" di Mattia. Il nuovo romanzo è dedicato al racconto di fatti e vicende immersi nella crisi di fine Ottocento, in un quadro privo – secondo l’autore – di punti saldi e soluzioni convincenti. I "vecchi", gli uomini del Risorgimento e fondatori dello stato unitario, falliscono, tra scandali e rivolte. I "giovani", che aspirano a succedere ai primi al timone della società, falliscono a loro volta, rappresentati da Pirandello cinicamente in preda alla spregiudicatezza. Dal punto di vista della narrazione, il romanzo appare a mezza via tra una formula tradizionale di racconto e quella modernamente umoristica, d’altra parte già compiutamente attuata da Pirandello ne Il fu Mattia Pascal e nella nuova edizione dell’Esclusa. C’è da un lato la volontà autoriale di esprimere un giudizio sui personaggi, incapaci di agire rettamente ed efficacemente nella storia; dall’altro, c’è la tendenza all’immedesimazione in essi, per rappresentarne da vicino gli scatti e i rivolgimenti interiori. È un romanzo, in sostanza, I vecchi e i giovani, da un lato improntato sul già consolidato romanzo storico, che presupporrebbe un saldo punto di vista complessivo; dall’altro lato, sulla più moderna – si direbbe, più pirandelliana – poetica di una realtà, anche storica, comunque inconcludente e senza scopo, senza senso.
Elaborato e pubblicato in rivista nel 1915 è invece Si gira..., poi rimaneggiato e ripubblicato nel 1925 (lo stesso anno della stampa di Uno, nessuno e centomila) con il nuovo titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Ed è uno dei grandi esiti, benché meno conosciuti, della linea romanzesca pirandelliana. La storia è raccontata in prima persona da Serafino Gubbio, operatore cinematografico, che annota (dato che è diventato muto dopo aver assistito al fatto violento con cui si chiude la vicenda) sui propri quaderni – una sorta di diario, quale quello su cui Mattia redige le proprie memorie in qualità di “fu” – ciò che vede attorno a sé e di fronte all’obiettivo della propria macchina da presa. La vicenda è una complicata storia di amori e amanti, gelosie e invidie, passioni e ridicoli fallimenti, e infine di tragedie (in conclusione Aldo Nuti, dovendo sparare a una tigre in una scena filmica, rivolge l’arma verso l’attrice Varia Nestoroff, di cui è innamorato e da cui è deluso, e finisce a sua volta ucciso dall’animale), tutte comprese nel mondo – patinato ma insieme piuttosto misero – della casa di produzione cinematografica Kosmograph, per la quale appunto Serafino lavora. In realtà, è tutto questo un grande punto di osservazione, per il protagonista e poi narratore, sulla realtà e sui suoi caratteri. Serafino osserva impassibile tutto il mondo, come richiesto dal proprio lavoro di operatore:
[...] la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. 2
Così è Serafino, il quale – per quanto nel corso del romanzo, talvolta, non sembri del tutto rinunciare a interpretare comportamenti e parole degli altri personaggi – alla fine “si perfeziona” nella propria impassibilità. Solo così, infatti, ammette il protagonista:
Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. [...] Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore. 3
Quasi come il fu Mattia Pascal, alla fine del romanzo. È l’intellettuale estraneo (in qualche modo, secondo l’espressione prima analizzata, “escluso”), incapace di ricavare un significato dalla realtà osservata, privo di una funzione attiva e costruttiva. È, questo pirandelliano, l’intellettuale schiacciato dalla civiltà delle macchine, che rappresenta uno dei grandi temi polemici del romanzo:
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. 4
e dunque, afferma la voce narrante, con corrosiva forza - e in chiara contrapposizione ai dettami della poetica futurista: "Viva la Macchina che meccanizza la vita!" - rilancia Serafino, ironicamente, rappresentando la propria condizione di scacco, ridotto a "silenzio di cosa". In questo contesto, secondo queste premesse e secondo questa tipica impossibilità di un punto di vista positivo sulla realtà, si sviluppa dunque la storia, punteggiata dai temi e dai motivi propri della poetica pirandelliana. L’episodio della tigre, destinata all’uccisione durante le riprese filmiche, ne contiene alcuni in maniera emblematica. La storia della bestia è, appunto, assurda. Rinchiusa in un parco zoologico, in un ambiente che riproduce in maniera artificiale quello suo naturale, proprio allo scopo di esporre questa forza della natura agli occhi dei visitatori, la tigre, fedelmente alla propria natura, ha dato segno di aggredire gli uomini. E – paradossalmente – per questo è giudicata pericolosa e condannata. Non è insomma stata in grado di rispettare "le regole più elementari della vita sociale" (ivi, p. 575), ravvisa ironicamente la voce narrante. L’idea artificiosa dell’uomo prevarica il dato di natura dell’istinto animale. Ora, quando Serafino la vede, la tigre è in gabbia, presso gli studi Kosmograph: "Dacché è qui, è saggissima. Come si spiega? Il nostro trattamento, senza dubbio, le sembra molto più logico. Qui non le è data libertà di provarsi a saltare alcun fosso, nessuna illusione di color locale, come nel Giardino Zoologico" (ivi, p. 575-576). Ma già si sta, per lei, predisponendo un set cinematografico che riproduce artificialmente il suo ambiente naturale. Qui sarà introdotta e, quando si slancerà nel suo ultimo balzo, l’attore l’ucciderà: "l’India sarà finta, la jungla sarà finta [...]: solo la morte di questa povera bestia non sarà finta" (ibidem).
È, ancora, la condizione paradossale e non controllabile dell’esistenza in una realtà senza senso. L’identità umana, qui, come tipicamente in Pirandello, si frantuma e si scompone. Il Nuti, delirante, vede in Luisetta la sua Duccella, di cui è innamorato, e la tiene abbracciata: "Ella, la signorina Luisetta, faceva pietosa e amorosa la sua anima per conto d’un’altra; e quest’anima, fatta così pietosa e amorosa, la dava a lui, come cosa non sua, ma di quell’altra, di Duccella" (ivi, p. 659). Si vive tra una maschera e l’altra, imprigionati (come Luisetta, "come una farfalla fissata crudelmente con uno spillo, ancora viva"; ivi, p. 668) o orfani di esse (come il dott. Cavalena, incapace, tentando di affrancarsi dall’opprimente situazione familiare, di riaffacciarsi a quello che considerava il “proprio mondo”, ricordando così da vicino al lettore lo scacco subito da Mattia Pascal). Domina, nei Quaderni, la più tipica relatività della poetica dell’autore siciliano: «Voi, per la gente che non vi conosce, che è tanta, non avete altra realtà che quella dei vostri calzoni chiari o del vostro soprabito marrone o dei vostri baffi all’inglese» (ivi, p. 688). Esistenza relativa, dunque, nei confronti degli altri. Così come relativa nei confronti di un se stesso non unificato. Nei frangenti delle vita l’uomo è «un altro che non ha nulla o poco a che vedere con lui» (ivi, p. 641); la sua stessa riproduzione meccanica può svelare questa condizione:
gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere. Chi sa come ci sembrerebbero buffi! più di tutti, i nostri stessi. Non ci riconosceremmo, in prima. 5
L’uomo, dunque, è ancora una volta in Pirandello una costruzione: soggettiva, casuale, transitoria. Di fronte a tutto ciò, rimane solo il silenzio. Quello di Serafino, che può al più riprendere, dare impassibilmente in pasto la realtà alla propria macchina da presa. Senza un’ulteriore parola di proposta o di senso.
1 R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, La scrittura e l’interpretazione, vol. V Dal Naturalismo alle avanguardie, Palermo, Palumbo, 1997, p. 1222.
2 L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1973, vol. II, p. 522. Da qui in poi tutte le citazioni sono tratte da questa edizione.
3 Ivi, p. 735.
4 Ivi, p. 523.
5 Ivi, p. 614.