"L'umorismo" di Pirandello e la sua poetica

Il noto saggio di Luigi Pirandello su L'umorismo, pubblicato nel 1908, non tocca solo un argomento fondamentale della riflessione filosofica-estetica di inizio Novecento (basti pensare al saggio di Henri Bergson, Il riso del 1900 e quello di Sigmund Freud su Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio del 1905) ma presenta anche notevoli punti di contatto tra l'attività speculativa dello scrittore agrigentino e la sua produzione romanzesca, da Il fu Mattia Pascal fino a Uno, nessuno e centomila.
 
L'originale forma discorsiva del saggio mette a fuoco non solo la storia dell'umorismo, ma anche la sua natura profonda: la differenza tra "comico" ed "umorismo" è quella che - nel famoso esempio della "vecchia signora [...] tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili" - corre tra l'"avvertimento" e il "sentimento del contrario". Al centro di tutto, c'è la "riflessione" che permette di scorgere una verità diversa dietro alla facciata del mondo (e che sarà oggetto di forti critiche da parte di Benedetto Croce, principale voce della filosofia idealista del tempo). L'umorismo pirandelliano diventa allora una forma di percezione della realtà, oltre le nostre finzioni e addirittura al di là della nostra stessa identità, secondo uno "strappo" (per dirla con Mattia Pascal, cui il saggio è dedicato) che scaturire da un momento qualunque, anche dal fischio di un treno (come dimostrato dall'omonima novella). Una lezione, quella umoristica, che Pirandello terrà ben presente quando, nel suo metateatro, porterà in scena le "maschere" della nostra coscienza.
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