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Giovanni Pascoli e le edizioni di "Myricae"

Introduzione Le edizioni dell'opera

Myricae è una raccolta in progress, esito di un’elaborazione lunga e complessa come poche altre. Tra i grandi libri della poesia italiana otto-novecentesca, oltre ai pascoliani Canti di Castelvecchio, forse solo l’ungarettiana Allegria e, sia pure in modo diverso, il Canzoniere di Saba hanno storie editoriali e compositive altrettanto articolate. La vicenda di Myricae corre parallela al primo tratto del percorso poetico del suo autore. La testimonianza più antica risale al 1889, quando compare nelle carte di Pascoli la nota citazione dall’incipit della quarta bucolica di Virgilio ("[...] paulo maiora canamus. | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae"; "Cantiamo argomenti un po' più elevati! Non a tutti piacciono gli arbusti, e le umile piante delle tamerici") da cui ha avuto origine il titolo della raccolta. L’anno successivo appare sulla rivista «Vita Nuova» il primo nucleo di testi riunito sotto quel nome. Nel 1891, in occasione delle nozze dell’amico Raffaello Marcovigi, esce a stampa la prima smilza edizione con ventidue componimenti: è in questo momento che ha effettivamente inizio la storia del libro, conclusasi vent’anni dopo, nel 1911, con la nona edizione – l’ultima stampata mentre Pascoli era ancora in vita –, che consta di ben centocinquantasei pezzi.

L’incremento delle poesie inserite nel volume ha avuto luogo soprattutto tra la prima e la quinta edizione: erano già settantadue nella seconda, che segue di solo pochi mesi la prima, per salire a centosedici nella terza, del 1894, e a centocinquantadue nella quarta, del 1897. Il totale definitivo è già raggiunto nella quinta edizione, apparsa nel 1900. Ma a mutare, in questo operoso ventennio di gestazione, non è soltanto il numero dei testi: Pascoli è intervenuto sia a livello macrostrutturale – alterando cioè l’ordinamento delle liriche, i titoli e la successione delle sezioni –, sia a livello microstrutturale, con varianti anche notevoli fin nei singoli versi e nell’interpunzione. Sono in particolare la sesta edizione (1903), la settima (1908) e la nona (1911) ad apportare novità su questo piano. Sin dalla seconda edizione (1891) è però possibile riconoscere le coordinate essenziali della raccolta. Nelle due sezioni, una di sonetti e l’altra di madrigali, i modi tipici della poesia pascoliana – la fusione di cadenze e temi popolari con un linguaggio a tratti allusivo e visionario – danno forma a un preciso ritratto dell’io lirico: emerge già l’immagine del poeta-orfano che, da un lato, rievoca la propria infanzia felice e, dall’altro, si scontra con l’avvenimento che ha spezzato quell’idillio, ossia l’assassinio del padre (Ruggero Pascoli viene ucciso da ignoti la notte del 10 agosto 1867, come ricorderà, tra le altre poesie, X Agosto con la sua atmosfera patetica e struggente), e lo ha forzato a confrontarsi con una realtà odiata. A costituire uno dei fondamenti su cui si reggerà la configurazione definitiva della raccolta, dotata in ogni fase elaborativa di una forte compattezza tematica, sarà proprio il contrasto tra la serenità agreste, assunta a mito positivo e salvifico, e la morte, intesa in senso assoluto e non solo nei termini in cui si abbatte soltanto sulla biografia del poeta.

Allo stesso modo, fin dalla seconda edizione la forma metrica delle poesie dà a sua volta un contributo decisivo nel determinare la struttura di Myricae. Ciascuna sezione continuerà a raccogliere quasi sempre testi omogenei a livello metrico. Farà eccezione In campagna, in cui Pascoli ha inserito una sorta di antologia delle molteplici forme metriche presenti nel libro. Si trovano, per fare solo qualche esempio: saffiche, madrigali, sonetti, ballate, strambotti, stornelli, nonché strutture originali ideate ex novo dallo stesso Pascoli (che, da questo punto di vista, è uno sperimentatore come il maestro Carducci). A partire dalla terza edizione (1894) il volume è suddiviso non più in due ma in dodici sezioni: sintomo che la raffigurazione dell’io lirico ben presto risulta meglio sfaccettata. L’accento prende a battere anche sull’identità poetica dell’io, vale a dire sulla sua attività di scrittore di versi: non siamo più di fronte soltanto a un uomo con i suoi tormenti psichici o le sue predilezioni naturalistiche, ma a uno scrittore che esibisce un’alta consapevolezza metapoetica (ovvero, di riflessione teorica sulla propria arte). Nella quarta edizione (1897) le sezioni giungono al numero definitivo di quindici, e cresce sensibilmente, nella messa a punto del grande affresco agreste di Myricae, l’impiego di tecniche riconducibili al Simbolismo: in particolare l’analogia e il cosiddetto fonosimbolismo. Alla precedente fase di stampo tutto sommato realista (siamo all’incirca nel periodo 1885-1895) succede la tendenza sempre più forte a restituire della realtà una visione percorsa da tratti surreali, in cui gli oggetti sono caricati di significati ulteriori rispetto quelli che appartengono loro nel linguaggio comune. Con la successiva edizione (la quinta, del 1900), che vede l’aggiunta di un numero ristretto di testi e pochi altri mutamenti di natura non sostanziale, il volume approda a una struttura che resterà pressoché immutata. Vista la complessità del percorso di Myricae, non stupisce che dalla sesta edizione Pascoli abbia deciso di annettervi una Nota bibliografica, in cui ha dato conto della complicata storia editoriale della raccolta. 

Va infine notato che Pascoli non si è dedicato per un ventennio soltanto a Myricae, ma ha lavorato nel contempo su più tavoli: ha composto le poesie confluite nei Canti di Castelvecchio (salvo rare eccezioni scritte e pubblicate tra il 1897 e il 1903), nei Poemetti e nei Poemi conviviali (a loro volta ideati e uscite a stampa negli anni a cavallo tra Otto e Novecento). Testi che, in alcuni occasioni, rispondono a una concezione della poesia e a scopi diversi da quelli di Myricae. Pascoli, sin dall’inizio della carriera, ha insomma mostrato la capacità di pianificare il proprio lavoro di poeta in serie differenti ma sincroniche di opere, riuscendo in un esercizio piuttosto raro per uno scrittore: sperimentare nello stesso tempo modalità espressive diverse. Basti un unico esempio, che ci riporta a Myricae: si osservi che la citazione dalla Bucoliche di Virgilio che apre il volume si trova, diversamente ritagliata, in epigrafe ad altri libri pascoliani collocati ad altezze cronologiche molto diverse: dai citati Canti di Castelvecchio ai Primi e ai Nuovi Poemetti (rispettivamente del 1904 e del 1909) fino ai Poemi conviviali (del 1905). Testimonianza di un’ispirazione diversamente declinata (a seconda del testo che intende presentare, Pascoli "taglia" in modo diverso l'incipit virgiliano...), ma che muove sempre da un nucleo d’ispirazione tutto sommato unitario.

Bibliografia essenziale:

- G. Contini, Il linguaggio di Pascoli (1955), in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970.
- A. Girardi, Nei dintorni di Myricae. Come muore una lingua poetica? (1989), in Prosa in versi. Da Pascoli a Giudici, Padova, Esedra, 2001, pp. 27-50.
- G. Pascoli, Poesie, a cura di L. Baldacci, Milano, Garzanti, 1974.
- M. Pazzaglia, Pascoli, Salerno, Roma, 2002.